Massima allerta a Gerusalemme dopo l’attentato al rabbino Yehudà Glick
GERUSALEMME ¬ Venerdì di preghiera e la Spianata delle Moschee a Gerusalemme apre dopo la chiusura totale di ieri, la prima dal settembre 2000 avvenuta in seguito alla visita dell’allora premier Ariel Sharon. Chiusura decisa dal premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo il tentato omicidio del rabbino nazionalista Yehudà Glick da parte di Muatnaz (o Muataz) Hijazi, palestinese militante della Jihad islamica. Quest’ultimo, sospettato per l’attentato al rabbino, è stato poi ucciso nella notte, dopo aver opposto resistenza armata, con un’irruzione di un’unità speciale israeliana nella sua abitazione.
La riapertura della Spianata è stata concessa dalla mezzanotte per consentire l’ingresso solamente ai fedeli musulmani adulti che abbiano compiuto cinquant’anni. Misura presa per tentare di ridurre il rischio di tensioni ed incidenti. Per ora la situazione è calma nelle strade della Città Vecchia che sovrasta la Spianata, dopo le crescenti tensioni e violenze di ieri.
Tutto è partito da uno dei luoghi religiosi più contesi al mondo per importanza. Un luogo chiamato dagli Ebrei Monte del Tempio, per loro sacro appunto perché sede del tempio di JHWH, distrutto dai Romani, di cui oggi rimangono solo alcuni tratti del Muro Occidentale di contenimento, detto Muro del Pianto, alla cui base gli ebrei si recano per pregare. Sacro per i Musulmani perché per la loro tradizione il profeta Maometto venne assunto in cielo dalla roccia situata in cima al monte, oggi all’interno della Cupola della Roccia. Sacro infine per i Cristiani perché dove si svolsero molti episodi della vita pubblica di Gesù, tra i quali le dispute con i sacerdoti.
È tarda serata quando il rabbino Yehudà Glick, dirigente di origine americana del gruppo nazionalista dei «Fedeli del Monte» che si batte per la ripresa delle preghiere ebraiche proprio sul Monte del Tempio (l’ingresso proibito agli ebrei che possono pregare solo esternamente in seguito ad un’intesa avvenuta tra Israele e Giordania dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967), viene gravemente ferito da colpi di arma da fuoco sparati da un uomo in moto. La dinamica vede il motociclista avvicinarsi a Glick davanti al museo in memoria di Menachem Begin, premier del Likud (partito liberale e di centro-destra a Israele) per chiedere in un ebraico dal forte accento arabo «Sei tu Yehudà?», aspettare la risposta affermativa, sparare quattro colpi al torace e scappare, sempre nascosto dal casco. È lo «Shin Bet», controspionaggio israeliano, a identificare Muatnaz Hijazi come killer. Già arrestato in passato (aveva scontato dieci anni per attività legate all’Intifada e una volta libero aveva dichiarato «spero di essere una spina nel fianco dei sionisti»), Hijazi abita non molto distante dal luogo dell’attentato, ad Abu Tor. Per Hamas e la Jihad islamica di Gaza il gesto di questo trentaduenne palestinese sarebbe «eroico» e lui «un martire presso Dio» e «Glick merita di morire». La Jihad islamica ha subito rivendicato l’attentato esortando i palestinesi a «proseguire l’Intifada e lo scontro con le forze di occupazione in tutti i territori occupati in Cisgiordania e nelle aree del 1948». Le versioni date dalle rispettive parti non concordano però su alcuni punti: per i palestinesi Hijazi sarebbe morto dissanguato dopo essere stato lasciato a terra per molto tempo, con alcuni giovani dispersi dalla polizia perché volevano prestargli soccorso; per gli israeliani Hijazi «ha opposto resistenza alla cattura e gli agenti sono stati costretti a sparare» e all’interno della sua abitazione sarebbe stata trovata l’arma usata nell’agguato.
Il ministro della sicurezza interna Yitzhak Aharonovic ha preso subito misure di emergenza e, oltre alla chiusura della Spianata delle Moschee, ha richiesto rinforzi per la polizia di Gerusalemme in modo da contrastare le reazioni non solo dei palestinesi ma anche di ultranazionalisti ebrei che potrebbero compiere ritorsioni ai danni dei palestinesi come reazione all’attentato. Per Netanyahu le violenze a Gerusalemme est sono frutto di «un’ondata di incitamento da parte di elementi islamici radicali e del presidente dell’ANP Abu Mazen che ha dichiarato che occorre impedire con tutti i mezzi agli ebrei di entrare nel Monte del Tempio».
La chiusura di ieri aveva registrato subito reazioni opposte, per il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen era un atto di guerra, «una sfida aperta e un comportamento pericoloso che creerà ulteriore tensione, instabilità e un clima negativo», attribuendo al governo israeliano «la responsabilità per la grave escalation della situazione a Gerusalemme». Anche per il mufti di Gerusalemme, sheykh Muhammad Husayn, è inammissibile perché «è la prima volta dal 1967 (data della Guerra dei sei giorni) che accade una cosa simile. Nemmeno in occasione della guerra del 1973 fu presa una decisione del genere. La moschea deve restare aperta a prescindere dalle circostanze», esortando le autorità israeliane a «lavorare per normalizzare la situazione in città, e non per aggravarla». I gruppi nazionalisti ebrei sostenevano invece la chiusura perché per loro «è Hamas che controlla la Spianata delle Moschee». Anche Kerry, capo del Dipartimento di Stato americano, ha esortato le parti ad esercitare moderazione e a «tenersi lontane da provocazioni e preservare lo status quo» sulla Spianata. Status quo che che Netanyahu si impegna a garantire ma «sarà un confronto lungo e occorrerà innanzitutto abbassare le fiamme», agendo con freddezza, responsabilità e determinazione anche se la comunità internazionale deve smetterla «con l’ipocrisia e di sostenere chi incita all’odio e chi vuole cambiare lo status quo». Stessa comunità internazionale interpellata dall’opposta parte palestinese di Abu Mazen per non far peggiorare le cose ma a risolverle implementando «la legge internazionale e così concludere l’occupazione».
Paola Mattavelli
31 ottobre 2014