ISIS: sesto video di Cantlie dopo soli due giorni
SIRIA — Lo Stato Islamico ritorna con la diffusione del sesto video di John Cantlie. Questa volta però Cantlie non veste la tuta arancione e non sta dietro ad un tavolo, ma viene ripreso vestito di nero, con i capelli e la barba più lunghi, come a seguire lo stile dei musulmani radicali che seguono i dettami del salafismo, scuola di pensiero sunnita che spinge per il ritorno ad un Islam puro, quello dei primi anni dopo la morte del Profeta. Risulta difficile chiamarlo «ostaggio», quasi ci si dimentica a guardare il video che lo riprende in veste di giornalista davanti ad un edificio al centro di Kobânê. L’inizio del video è «accattivante», parola che stona nel contesto di una guerra spietata e senza sosta, ma la veduta aerea fatta dal drone, di una città calma con il rumore sporadico degli spari in sottofondo, permette di entrare in una zona dove si combatte senza sosta strada per strada come se si assistesse ad un telefilm o si giocasse ad un videogioco. La voce ferma e quasi rassicurante di Cantlie gioca un ruolo importante nel non creare allarmismo in chi lo guarda. Eppure ciò che viene detto è molto preoccupante. Innanzitutto partiamo dal titolo, «Inside ‘Ayn al-Islam», a specificare che si tratta di un vero reportage all’interno della città curda situata a nord sul confine siriano con la Turchia. Il nome è importante perché i mujaheddin hanno cambiato il nome arabo della curda Kobânê (o Kobânî) da ‘Ayn al-‘Arab, che significa fonte/primavera araba, in ‘Ayn al-Islam, cioè islamica. La propaganda per la Guerra Santa butta i semi in ogni dettaglio, e i nomi segnano l’avanzata tanto quanto la bandiera nera che si vede sventolare sugli edifici, con la linea di confine con la Turchia di una vicinanza palpabile e il campo profughi sulla destra.
L’esordio è semplice e diretto: «Ciao, sono John Cantlie e siamo a Kobânê, nel cuore della zona di sicurezza del PKK, ora controllata interamente dallo Stato Islamico. Da un mese i soldati dell’ISIS stanno assediando la città curda e, nonostante i raid americani che finora sono costati mezzo miliardo di dollari, i mujaheddin si sono spinti avanti fino a controllare le zone a est e a sud. La battaglia per Kobânê sta volgendo al termine». Continua poi con tono tranquillo e competente ad elencare tutta una serie di notizie date dalle stampa occidentale riguardanti la ritirata dello Stato Islamico, con l’uccisione di centinaia di estremisti islamici. Notizie secondo Cantlie che arrivano da una informazione errata data dai combattenti curdi, dal Pentagono e dalla Casa Bianca perché «non vedo nessuno di loro qui», dice guardandosi in giro come a cercare i giornalisti dei media occidentali. Ma in giro, sostiene Cantlie, ci sono solo le milizie dell’ISIS: «Il punto è che, da dove mi trovo, non ci sono curdi del PKK, YPG e Peshmerga, ma solo mujaheddin. I raid hanno impedito loro di entrare con i carri armati, ma loro stanno rastrellando ogni via, edificio per edificio, e vanno casa per casa usando armi leggere», combattimento a loro congeniale. Per il britannico «l’America cerca di far diventare Kobânê un simbolo della vittoria della coalizione, ma sanno, come lo sanno anche i mujaheddin, che tutta la loro potenza aerea e le loro truppe di terra non sono sufficienti per sconfiggere lo Stato Islamico», né qui né altrove. Infatti nel video viene affermato che «Kobânê sta venendo rinforzata dai curdi iracheni che arrivano attraverso la Turchia, mentre i mujaheiddin stanno venendo riforniti dalle disperate forze aeree degli Stati Uniti, che hanno parcadutato due casse di armi e munizioni proprio tra le braccia tese» dei miliziani dell’ISIS in una battaglia a tutto campo che «è quasi finita».
Come per gli altri cinque video, colpisce la sottile linea che divide l’informazione da una manipolazione delle notizie. Si rimane perlpessi per alcuni minuti a vagliare quanto sia vero o meno quello che viene detto in un modo conciso e ben studiato. Non si deve però dimenticare che, per quanto si dica che le informazioni date agli occidentali siano di parte e falsate, mai una parola viene pronunciata per ricordare che Kobânê era una città di quasi sessantamila persone, che sono state costrette a scappare e a rifugiarsi in Turchia per sfuggire alle milizie terroriste dello Stato Islamico, uno Stato autoproclamatosi che avanza e conquista con la violenza e il sopruso, che uccide e sgozza, che impone e costringe.
Paola Mattavelli
28 ottobre 2014