Maghreb, area di calamità naturali e non
Terremoto in Marocco, inondazioni in Libia, prigione per gli oppositori tunisini e algerini, terrore – dal 7 ottobre – nella Striscia di Gaza.
Un paesaggio congelato. Il Marocco e l’Algeria, che oggi vivono in un perenne regime di guerra fredda – si vedano le frontiere, le dichiarazioni astiose o alcune regioni bloccate economicamente – non si parlano più. Né ufficialmente, né ufficiosamente. Il dossier del Sahara Occidentale, chiave di volta del conflitto, non ha fatto un mezzo passo avanti. Rabat continua ad investire per sviluppare Dakhla, “capitale” delle “terre del Sud” – come si dice nel Regno – quando Algeri, dal canto suo, esige un referendum per decretarne l’autonomia. Il Maghreb è una zona grande quanto l’Italia ed è paralizzato da decenni. Altra costante quella del disordine libico, il quale è culminato lo scorso settembre con la tragedia di Derna. Questa città dell’est è stata letteralmente inghiottita dalle acque durante la tempesta Daniel. Il bilancio è stato di 4.532 morti, 8.000 dispersi, più di 50.000 sfollati.
La corruzione, inoltre, ha moltiplicato il furore metereologico: le due dighe che dovevano proteggere la città hanno ceduto per omessa manutenzione. I soldi a lei destinati spariti nel nulla. L’est del paese, pertanto, è nelle mani del clan di Haftar. Gli abitanti hanno chiesto una commissione d’inchiesta internazionale, pur sapendo che il clan dominante non lo avrebbe mai permesso. Oggi il Paese è in realtà due Paesi: l’Est e l’Ovest, per l’appunto.
Le organizzazioni internazionali si appoggiano ancora alla speranza che delle elezioni potranno cancellare le divisioni. In Marocco, lo scorso 8 settembre un terremoto ha ucciso 2.960 persone nell’Alto Atlas. È stato il più forte che il Paese abbia mai conosciuto. Più di 50.000 abitazioni sono state distrutte o dichiarate inagibili, lasciando 300.000 persone senza casa se non tende installate dall’esercito reale. L’epicentro del sisma si trovava a 70 chilometri da Marrakech. La città fulcro del turismo è stata toccata parzialmente: a pagare i danni maggiori è stato il quartiere ebraico nella Medina.
Senza il 7 ottobre, il 2023 sarebbe stato un anno politicamente incolore per il Maghreb, dove si pensava che la questione palestinese appartenesse al passato, che gli accordi di Abraham – normalizzazione dei rapporti tra Paesi Arabi e Tel Aviv – fossero il futuro. Ciò che la guerra in Ucraina aveva cominciato – un allontanamento dalle democrazie europee – la guerra di Gaza ha mostrato di avere il potere di creare un vero e proprio spartiacque. Il conflitto nutre risentimenti, con l’accusa di un Occidente a “doppio standard”, ossia, che vengono applicati principi di giudizio diversi nei confronti di persone diverse che si trovano nella stessa situazione.
In questo scenario piuttosto aleatorio, instabile e incerto, in un anno che vedrà il mondo coinvolto in elezioni cruciali, anche Algeria e Tunisia saranno sotto i riflettori per via delle importanti elezioni Presidenziali: pensando alla situazione che stanno vivendo i due Paesi nordafricani, viene in mente la frase simbolo de “Il Gattopardo”: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. L’immobilità sembra essere la loro caratteristica maggiore. E questo non è un bene. L’Algeria è il paese più popolato della regione, una potenza militare a livello regionale e un peso massimo nel settore degli idrocarburi. La Tunisia è stata la culla della Primavera araba, ma oggi questa primavera assomiglia più ad un freddo inverno. In Algeria, il “sistema” militare-affarista che dirige il Paese nell’ombra delle caserme eleggerà, a fine anno, il “suo” prossimo Presidente. Nel Paese di Sonatrach – compagnia nazionale che gestisce petrolio, gas e derivati, e cioè il 90% delle entrate dello Stato – però non si scherza. Nel 2019, milioni di algerini avevano dovuto manifestare in tutto il Paese, per decine di venerdì, affinché l’esercito “destituisse” il Presidente Abdelaziz Bouteflika, che sperava strappare un quinto mandato. Dopo più di 19 anni di presidenza, paralizzato da un ictus, Bouteflika era diventato un fantasma per il popolo. Abdelmadjid Tebboune, votato funzionario del Fronte di Liberazione Nazionale, già sei volte ministro, viene allora scelto da Bouteflika come suo successore. Venne eletto presidente con il 58,13% dei voti al primo turno, ma con appena il 5% dei voti dei 24 milioni di aventi diritto al voto. Qual è, ad oggi, lo scenario più plausibile? Ad oggi non c’è nessun competitor “credibile” e lui sta facendo del suo meglio per conservare il suo posto: aumenti di stipendio dei funzionari pubblici e promessa di nuove case popolari, con un occhio attento sulla priorità del momento: piacere agli impiegati, parte fondante del sistema-paese. Il resto della popolazione, quella del movimento di protesta Kirak, è stato posto a numerose limitazioni e non pochi oppositori sono stati arrestati. Da sottolineare la nomina, lo scorso 11 novembre, di un nuovo Primo Ministro: Nadir Larbaoui, ex diplomatico di 74 anni, molto vicino al Presidente Tebbourne. Per molti osservatori questa nomina – avvenuta a tredici mesi dalle elezioni presidenziali – è il segnale di partenza della campagna elettorale, anche se il presidente non ha ufficializzato la sua candidatura. Larbaoui dovrà affrontare dossier spinosi, riconquistare la fiducia del popolo affinché questo riacquisti, a sua volta, la fiducia nel presidente.
Un ex diplomatico fedelissimo è una buona mossa. Anche pensando alla radicale politica estera che l’Algeria porta avanti da anni. L’unica democrazia nata dalla Primavera araba si trova oggi in una sorta di “zona grigia” perché le libertà individuali dei tunisini vengono lentamente erose. Dal 25 luglio 2021, la situazione preoccupa perché la gente non sa dove la corrente la stia portando. Quel giorno, il presidente Kais Saied, democraticamente eletto capo dello Stato nel 2019, ha portato avanti un vero colpo di forza, appoggiandosi sull’articolo 80 della Costituzione tunisina [conferimento dei pieni poteri costituzionali al Capo dello Stato, per un periodo limitato, in caso di pericolo immediato che minacci la sicurezza, l’indipendenza del Paese, e il corretto funzionamento delle istituzioni, ndr].
Kais Saied è andato poi oltre questo articolo, revocando il governo e sospendendo i lavori del Parlamento. Il 22 settembre 2021 si è arrogato per decreto tutto il potere esecutivo, si è impossessato del potere legislativo e ha sospeso la Costituzione. Ha cominciato a governare attraverso decreti-legge. Con astuzia ha organizzato un referendum sulla nuova Costituzione (tasso di partecipazione al 30%), e organizzato delle elezioni politiche nel dicembre 2022 e gennaio 2023 alle quali solo l’11,4% dei tunisini ha partecipato. Di conseguenza, tutto in regola costituzionalmente parlando. Cosa resta della giovane democrazia tunisina? Sul piano istituzionale, è un potere dittatoriale, perché è il potere di un solo uomo. Sul piano delle libertà, ci sono delle distorsioni flagranti in campo di diritti personali e libertà politica. Ci sono stati arrestati nel mondo politico e dei media e una ventina di persone sono state arrestate nel febbraio del 2023, accusate di “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Tra loro troviamo anche ex ministri e uomini d’affari. Queste elezioni presidenziali si annunciano molto diverse da quelle post rivoluzione del 2014 e 2019, allora poste sotto il segno della pluralità e dell’alternanza. Indubbiamente, la vittoria non potrà che riaffermare la sua “legittimità”. L’austero costituzionalista era stato eletto per la sua probità, nella speranza di voltar pagina sull’esperienza degli islamisti e delle loro derive. Non è andata proprio come si sperava, ma, salvo imprevisti, il Presidente uscente sarà rieletto. Tuttavia, se nel 2019 Saied aveva ottenuto un risultato dal sapore di plebiscito (72,2%), questa volta sarà difficile replicarsi.
La sua posizione è molto delicata. Kais Saied del 2024, deve affrontare enormi sfide. In primis economiche. Carenze di beni e servizi, tasso di disoccupazione ai massimi, mancanza di liquidità, con il paese che sta attraversando difficoltà finanziarie da mesi. La questione delle libertà individuali, inoltre, comincia ad essere difficilmente celata. Infine, la sfida diplomatica. Ne sono testimonianza le trattative su sfondo di reticenza del Presidente Saied, tra Tunisi e le capitali europee per trovare un accordo sui migranti. Così come i problemi quasi insormontabili nel reperire fondi sui mercati internazionali.