Lo stallo all’israeliana
A quasi una ventina di giorni di distanza dall’assalto palestinese in territorio israeliano, la situazione non è cambiata più di tanto intorno a Gaza. Da un lato, l’aviazione israeliana continua a bombardare giorno e notte tutte le posizioni e gli edifici ritenuti collegati al movimento palestinese Hamas, dall’altro, però, la tanto attesa operazione di terra tarda a cominciare. Gran parte del mondo si aspettava una forte reazione già dai primissimi giorni, con l’ingresso dei corazzati e delle fanterie dell’IDF all’interno dei confini della Striscia, ma a quanto pare si sbagliava.
Le ragioni di questo stallo, al momento, sono assai numerose. Per prima cosa, Israele sta conducendo una campagna aerea particolarmente aggressiva, che permette di limitare le proprie perdite, ma provoca, come conseguenza, la continua morte di centinaia di civili palestinesi. Poi, vi la difficoltà di procedere con un’operazione di terra all’interno di un contesto urbano complesso e ben fortificato che, tradotto in linguaggio militare, significa un numero elevato di perdite umane e materiali. Per ultimo, poi, viene il rischio di un coinvolgimento maggiore da parte delle nazioni confinanti e di gran parte del mondo arabo e islamico, che continuano a prendere una posizione a favore della causa palestinese.
Eppure, la notizia dell’invasione di Gaza viene definita «inevitabile» da parte dello stesso Esercito Israeliano, che mira a mettere fine all’esistenza di Hamas e a liberare la totalità degli ostaggi. Nonostante ciò, nei giorni scorsi è stato concesso al secondo convoglio delle Nazioni Unite di attraversare il confine a Rafah, così da consegnare importanti aiuti umanitari fondamentali per la sopravvivenza ed il sostentamento dei due milioni di civili residenti in questo minuscolo fazzoletto di terra. Hamas, da parte sua, ha invece liberato due ostaggi, come segno di avvicinamento e di maggiore apertura diplomatica.
La situazione, tuttavia, rimane esplosiva su tutto il fronte. Nel nord di Israele, lungo il confine con il Libano, le tensioni con Hezbollah crescono giorno dopo giorno. Nell’ultima settimana, infatti, vi è stato un continuo scambio di fuoco tra le due parti. Mentre Hezbollah impiega sistemi ATGM – ovvero missili anticarro guidati – e mortai per colpire le basi, i carri e i sistemi di osservazioni posti lungo il confine, l’IDF risponde con il fuoco delle artiglierie. Si tratta di un conflitto che, rispetto alle potenzialità di entrambe le parti, si mantiene a bassissima intensità, lasciando comunque un certo numero di caduti sul campo. Sono infatti un’ottantina i morti complessivi di questi scambi di fuoco, che nel frattempo stanno portando allo smantellamento del sistema di osservazione e d’intelligence israeliano posto sulla linea divisoria dei due paesi.
E’ facile intuire, a questo punto, che il collasso del sistema difensivo israeliano nell’area sia finalizzato principalmente ad agevolare le infiltrazioni in territorio nemico, nel caso in cui il conflitto tra il movimento libanese e lo Stato Ebraico si espandesse ancora di più. A gettar benzina sul fuoco, inoltre, ci pensano l’Iran e i suoi alleati regionali – definiti in gergo tecnico “proxy” – che nel corso dell’ultima settimana hanno lanciato numerosi attacchi contro le basi statunitensi nella regione e lo stesso Israele. Arabia Saudita e US Navy hanno distrutto vari vettori missilistici lanciati dalle milizie Houthi sciite yemenite, mentre in Iraq e Siria le principali basi e infrastrutture americane sono state bersagliate da un mix eterogeneo di razzi e droni.
Si tratta di una strategia, come facilmente intuibile, destinata a mantenere alta la tensione in tutta la regione, soprattutto per il timore di una facile estensione del conflitto ad altre realtà attualmente pacifiche. A conferma della strategia iraniana, infatti, vi è un continuo susseguirsi di minacce e azioni da parte dei propri alleati, che ora rischiano di ostacolare pesantemente gli interessi statunitensi nell’area. Non mancano, ovviamente, le minacce dirette di un coinvolgimento iraniano. Nei giorni scorsi, infatti, il comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica Ali Fadavi ha dichiarato: «se necessario, attaccheremo la città di Haifa». Non è un caso questo, ovviamente. La città costiera, già bombardata pesantemente da Hezbollah nel corso del conflitto del 2006, è uno dei principali centri economici, produttivi e tecnologici del paese, senza contare che si trova solamente a qualche decina di chilometri di distanza dal confine libanese. Fatto che, in breve, la rende un bersaglio ideale per qualsiasi azione offensiva o di rappresaglia.
Le tensioni, tuttavia, non si sono limitate a colpire Stati Uniti e Israele. Sono numerose le nazioni occidentali ed europee che, nel corso dell’ultima settimana, hanno subito atti ostili da parte delle folle inferocite, soprattutto in seguito alla strage dell’ospedale palestinese al-Nahli. L’Italia, è stata solo parzialmente colpita, con una singola manifestazione ostile a Tripoli, dove i manifestanti hanno domandato la chiusura dell’ambasciata. Un’ulteriore dimostrazione che, infine, la sanguinosa ostilità tra le due fazioni sta portando a importanti ripercussioni su un numero sempre maggiore di nazioni terze e non direttamente coinvolte.