“La linea dei mirtilli”: i Balcani visti da Paolo Rumiz

Il tuono della cavalleria rimbomba cupo sulla Piana dei Merli (Kosovo Polje) mentre lanciando il loro grido di guerra i condottieri della coalizione Serbo-bosniaca si scagliano contro le truppe ottomane. La sconfitta del Kosovo nel 1389 segna l’avanzata del Sultano nei Balcani e la prossima fine dell’indipendenza del Regno di Serbia. È una sconfitta a divenire il simbolo dell’epos nazionale del popolo serbo, cullato malinconicamente dalle poesie che riecheggiano non di conquista e vittoria, ma di perdita, disgregazione e morte.
Se I processi di costruzione nazionale europei si definiscono storicamente come graduali forme di aggregazione delle unità regionali e di potentati locali, per i Balcani è la perdita, il canto della fine a tessere il filo del destino dei popoli. Dall’impero romano, al bizantino, dall’impero ottomano all’asburgico, fino al Regno degli slavi meridionali e alla Jugoslavia di Tito, la terra delle alpi dinariche conosce l’infrangersi senza sosta delle ambizioni di zar, sultani, re e dittatori.
Samo sloga Srbina spasava, solo l’unità salverà il serbo, è il motto delle 4 “s” che riecheggia come presagio a Belgrado nel momento in cui la disgregazione del potere di Tito apre le porte alla sanguinose guerre jugoslave e all’abisso della violenza. Figlia degli imperi, per loro natura multietnici, la convivenza tra croati cattolici, serbi ortodossi, musulmani e le diverse minoranze innesca la miccia crudele dell’odio. L’Europa, la comunità internazionale e gli Stati Uniti non comprendono la potenziale crudeltà dei conflitti pronti ad innescarsi nei Balcani nel momento in cui Slovenia e Croazia nel 1991 dichiarano la loro indipendenza da Belgrado. Seguiranno da lì a poco la Bosnia-Erzegovina e la questione del Kosovo.
Se la lotta etnica diviene la chiave di lettura del dramma balcanico, i reali meccanismi sotterranei che ribollono al di sotto della superficie della propaganda sono più complessi. Solo lo sguardo attento di chi osserva e racconta con cura quelle storie umane può cogliere i movimenti sussultori che hanno fatto tremare veramente le terre dalla Dalmazia alla Macedonia. Come spiega la raccolta degli articoli della raffinata penna di Paolo Rumiz, “La Linea dei Mirtilli” edizion BEE, sono altre le reali fondamenta della guerra.
Oltre le operazioni psicologiche di natura strumentale per diffondere l’odio etnico verso il nemico, si nascondono infatti le trame reali di chi il potere effettivamente lo deteneva o lottava per conquistarlo. Le guerre jugoslave, spiega Rumiz, devono essere allora lette secondo una diversa lente d’ingrandimento, in primis quella della lotta tra vecchi e nuovi potentati partitici, tra clan criminali e nuovi gruppi in ascesa.
Il sistema di potere di Tito coltivò, con l’obiettivo dell’equilibrismo politico, un sistema di nuove elitè politiche basate su criteri etnici in concorrenza tra loro, in particolare con la riforma costituzionale del 1974. Nel disgregarsi della realtà jugoslava, i vecchi e nuovi gruppi della classe dirigente dell’era titina hanno innescato una lotta senza quartiere per colmare il nuovo vuoto, una conflittualità anche interetnica e in grado di costruire rapporti con strutture di potere, pubblico o criminale, trasversali alla nazionalità o alla fede religiosa.
In tale quadro un ruolo cardine ha giocato una ulteriore polarizzazione, anche questa trasversale all’apparente conflitto di tipo etnico, quella tra centri urbani della costa e le piccole realtà dei villaggi dell’entroterra. Localizzati nell’aree montuose a ridosso delle più ricche zone costiere, le popolazioni montane sono state mobilitate, sfruttando forme di revanscismo di classe, in chiave militare e nazionalistica. Come evidenzia Rumiz, da queste aree interne provenivano quelle figure divenute drammaticamente note alla cronaca per il loro ruolo sanguinoso, come il Presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia Radovan Karadžić.
Gli articoli Rumiz ci ricordano inoltre il ruolo fondamentale del giornalismo autentico, mai schiacciato sul presentismo e sul singolo fatto drammatico, ma in grado di restituire una cornice storica e sociale di ampio respiro per riflettere e comprendere la realtà.