La chiamavano Cool Britannia
A due anni esatti dall’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, un sondaggio commissionato dal quotidiano The Independent rivela ora che due terzi dei britannici (65%) ha cambiato idea sulla Brexit e in molti vorrebbero un nuovo referendum per poter magari ripristinare i rapporti con la UE. La prima consultazione popolare, quella del giugno 2016, lo ricordiamo, era finita con 48% di voti al fronte del Remain e 52% per il Leave: non solo quello di oggi è un vero ribaltone, ma con numeri ben più importanti ed in continua ascesa – lo stesso sondaggio, fatto esattamente un anno fa, dava il fronte del Remain in vantaggio con il 56%.
In molti, commentano i sondaggisti, potrebbero aver posto troppa fiducia negli effetti positivi della Brexit ed esserne rimasti delusi: tra l’economia che vacilla, il peso politico britannico sempre meno rilevante, i costi che aumentano e l’illusione di poter riprendere il controllo dei confini nazionali limitando le migrazioni di massa – che si è rivelata appunto un’illusione.
Ma forse c’è anche un’altra chiave di lettura, e risiede tutta in quell’imperialismo mai dimenticato e forse male interpretato di cui il grande Houdini della politica britannica ha saputo ricreare la magia. Poteva riuscirci solo lui, confermano in molti: con quel fare accattivante e scapigliato, colto ma insieme nazional-popolare che tanto piace all’establishment conservatore ma anche al popolo meno informato.
Boris Johnson aspirava ad essere il nuovo Churchill, guida del Paese verso un futuro di prosperità, finalmente libero dai bavagli dell’Europa. Poi i party durante il lockdown ne hanno imposto le dimissioni e rivelato la fragilità politica: a fine settembre il partito conservatore ha eletto alla successione Liz Truss, la leader che, come ricorda spesso la stampa britannica, è durata meno di un’insalata iceberg in frigorifero, e ora è la volta di Rishi Sunak, il primo leader di origini indiane eletto a Downing Street: piu’ moderato di Johnson, all’apparenza più competente di Truss, ma alle prese con una mission (almost) impossible. Quella di azzerare gli effetti devastanti della tempesta perfetta che si è abbattuta sul Regno, dove alle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina si sono sommati gli effetti della Brexit: i freni al commercio, l’aumento dei prezzi e le conseguenze sul mercato del lavoro dello stop alla libera circolazione delle persone, con molti ruoli centrali un tempo ricoperti da europei ora scoperti.
Tre leader in meno di due mesi, l’economia allo sbando, e i sondaggi che danno i conservatori in caduta libera.
E così, dal successo di slogan quali take back control e make Britain Great again si è passati ad un Paese dilaniato dagli scioperi: dai postini agli infermieri, dagli insegnanti ai ferrovieri alle guardie di frontiera, l’austerità e l’inflazione, la più alta degli ultimi quarant’anni, non risparmiano nessuno: i lavoratori socialmente utili chiedono un aumento per poter sopravvivere, i colossi tech quali Google riducono la presenza a Londra, non più così strategica come in passato, e il valore degli investimenti immobiliari, un tempo emblema di un’economia prospera e attrattiva, ha già perso il 25% negli ultimi 5 anni. La city ha perso la centralità finanziaria in Europa, mentre le aziende di stato, dalle poste alla sanità, sono al collasso. Cosa riuscirà a fare Sunak per restituire la centralità perduta al regno del nuovo Re Carlo III è difficile dirlo. In molti intanto sembrano avere accantonato le speranze di un 2023 florido e guardano alle prossime elezioni, che, a meno di sorprese, saranno nel 2024: vedremo se il leader laburista Sir Keir Starmer, la cui vittoria sembra scontata, saprà riconsiderare – e come – la relazione con l’Unione. Che si tratti di una riconferma Tory o di un nuovo corso Labour il problema per tutti resta lo stesso: ridare lustro ad un’isola forse non più così fiera del suo isolamento.