Il nostro hijab è la vostra taglia 44!

In sostanza, il burqa in pubblico è nuovamente obbligatorio dopo il ritorno della dittatura islamica che da metà agosto, sta riportando la storia a circa venti anni fa quando tra il 1996 e il 2001 fu imposto l’uso del burqa in base all’interpretazione radicale della legge islamica, la Sharia. Le donne dovranno coprirsi interamente per uscire di casa e le giornaliste televisive dovranno coprirsi il volto quando sono in onda. Farsi strada tra argomenti che spaziano dalla cultura e tradizione locale, alla sensibilità religiosa, alla libertà di scelta, al falso ideologico, con lo sguardo dell’occidente non è semplice. Almeno nella teoria bisognerebbe osservare con attenzione la storia culturale e religiosa che contrappone i due mondi ma la propaganda semina dubbi e insabbia la verità, che sia la nostra quanto la loro.
Cosa ne pensano le donne musulmane?
Nei fatti pubblicati e diffusi in rete il tema del burqa suscita lo sdegno quasi unanime, ‘Non toccare i miei abiti‘ è l’attuale campagna social delle donne afgane contro l’obbligo di coprirsi, attraverso l’hashtag #DoNotTouchMyClothes e #AfghanistanCulture vengono condivise le foto dei loro abiti tradizionali precedenti all’inasprimento del regime in forma di protesta contro le rinnovate restrizioni.
Basta digitare su Google “vestiti tradizionali afgani” e una moltitudine di abiti colorati vengono sfoggiati da donne di tutte le regioni dell’Afghanistan. ‘Il burqa non ha mai fatto parte della nostra cultura, Le donne afghane indossano abiti colorati “I vestiti tradizionali delle donne afghane rappresentano la nostra ricca cultura e la nostra storia, che ci rende orgogliosi di ciò che siamo’, scrive su Twitter l’attivista Spozhmay Maseed.
Iniziare a comprendere la differenza sottile quanto fondamentale che i copricapi islamici assumono in forme e significati, burqa, niqab e hijab, aiuta a distinguere le diverse posizioni. Il burqa è l’abito islamico che cela maggiormente il viso perché copre anche gli occhi tramite un pezzo di stoffa di spessore minore in modo da permettere a chi lo indossa di vedere. Il niqab è diverso dal burqa perché copre il viso lasciando una piccola area libera attorno agli occhi, l’hijab fino ad oggi indossato dalle donne afgane è il velo che copre la testa e il collo, lasciando il viso della donna scoperto.
Alcuni ritengono che i due abiti islamici, burqa e niqab facessero parte dell’abbigliamento femminile in classi sociali particolari nell’era bizantina, e sarebbero diventati una parte di quello islamico grazie alla diffusione dell’Islam in Medio Oriente, in ogni caso le diverse scuole giuridico – religiose islamiche non sono concordi in fatto di abito islamico, nello specifico sull’imposizione del velare anche viso e mani alla donna in presenza di estranei.

Dunque sembra essere più chiaro, che in tema di velo ovvero hijab, le cose stanno diversamente. “La ragazza con il velo in testa, aveva visto come a lezione reagivano al suo velo, simbolo dell’Islam politico, la madre, la famiglia e i rigidi dirigenti scolastici dei suoi amici. Nonostante le pressioni dei genitori, rifiutava di toglierselo, così non venne più ammessa a scuola e stava per essere espulsa per le troppe assenze … vedeva le sue amiche che avevano scoperto il capo … si chiamava Teslime, aveva fatto il tè, lo aveva offerto ai genitori, aveva fatto le abluzioni rituali e aveva pregato a lungo per poi impiccarsi con il suo velo al gancio del lampadario”. Scriveva così Orhan Pamuk premio Nobel per la letteratura nel 2006 nel suo romanzo ‘Neve’ storia di lunghe tensioni politiche e culturali della Turchia contemporanea e di un’indagine giornalistica al confine tra Turchia, Armenia e Georgia su una lunga serie di adolescenti suicide perché obbligate a privarsi dallo stesso Islam del loro hijab, per entrare all’università.
Il merito dei grandi autori sta nella capacità di ascoltare le voci dei loro Paesi e di trovare le emozioni più efficaci per ricordarle e raccontarle, se non anticiparle, al resto del mondo che sempre più frequentemente giudica tanto senza davvero conoscere.
“Lui scuote la testa, un’oscillazione leggera che si tramuta in violente scosse avanti e indietro. No. Noi non siamo uguali. E’ questo che ci separa ? Afaf si afferra la stoffa del velo intorno al collo. E’ questo che ci impedisce di comprenderci?” Con altrettanta compassione e sensibilità scrive nel suo best seller Sahar Mustafah, distante da ogni retorica, un’attualissima storia di una strage scolastica americana e libertà di scelta, in cui una preside di liceo femminile palestinese in Usa trovandosi faccia a faccia con l’attentatore bianco ripercorre il suo passato da ex ragazza scissa, sradicata e alla ricerca di un’identità che troverà proprio nel conforto della fede islamica in un ambiente anche familiare ostile, senza ricordi, tradizioni o radici.
La stessa eredità culturale è percorsa in Francia dal collettivo sportivo femminile Les Jijabeuses che si batte contro la legge che vieta il separatismo religioso in Francia, in vigore dall’agosto 2021 negando di indossare lo hjiab nelle partite in campo. Per il collettivo le legge è la negazione della libertà di scelta a dispetto di qualsiasi inclusione sportiva, anche se Shireen Amhed, pluripremiata attivista sportiva e scrittrice impegnata proprio sul tema delle intersezioni tra razzismo e misoginia nello sport, sulla questione si domanda se si tratti di difendere autentiche scelte e libere convinzioni o di un’uniforme simbolica nel nome della scelta religiosa e della segregazione femminile.

Tuttavia sull’attuale inasprimento delle restrizioni talebane stando alla rete, e allo stesso attivismo giornalistico locale afgano provengono severe critiche ‘Per i talebani le donne sono una malattia’ ha twittato il canale di notizie privato Shamsad in segno di protesta, pubblicando il video di giornaliste con il velo. Anche i presentatori di ToloNews e di altre emittenti sono comparsi in video indossando una mascherina in segno di solidarietà con le colleghe, precisando che le immagini delle presentatrici in tv sono da considerarsi virtuali e non reali.
In tema di frequentazione accademica per le donne c’era fino a qualche mese fa la possibilità di frequentare le lezioni solo indossando un abaya,, ampia tunica o un niqab, il velo con la piccola finestra per vedere attraverso ma da marzo scorso il governo talebano ha chiuso la frequentazione di scuole superiori e college alle ragazze, poco dopo la riapertura tanto annunciata e pur avendo garantito maggiore flessibilità. Tali indicazioni sono state diffuse a tutte le scuole di ogni ordine e grado con un documento scritto dall’autorità per l’educazione del governo talebano.
Diritti fondamentali
E’ evidente che l’autentico problema per le donne musulmane resta la riforma del diritto di famiglia e come gli integralisti appena preso il potere lo abbiano immediatamente modificato, estromettendo qualsiasi donna dall’esecutivo e negando una serie di pratiche tra le quali quelle sportive, nel rispetto della sharia. E’ a tal proposito che un’avvocatessa algerina di stanza a Bologna per una conferenza e in costante fuga dalle violenze del suo Paese a chi le chiedeva del velo aveva recentemente liquidato la questione commentando “il velo per le donne di fede musulmana corrisponde alla stessa preoccupazione per la taglia 44 che hanno le donne occidentali. Il vero problema è altrove come appunto il diritto di legiferare in mano agli integralisti, non è un caso che il re del Marocco, non appena insediato alla morte di suo padre una delle prime cose che realizzò fu la riforma del diritto di famiglia, ispirato al rispetto dei diritti delle donne”.

Mentre l’emittente televisiva, Al Jazeera Media Network, attualmente al centro del sentimento di unità per l’uccisione della loro reporter palestinese, firma di punta in tutto il Medio Oriente, la giornalista martire Shireen Abu Akleh, non dà più da tempo la notizia dello jiab della discordia, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto al governo di Kabul di annullare le misure che limitano i diritti umani e le libertà delle afgane, notizia che al contrario in occidente fa il giro di quotidiani, periodici e network schierati omogeneamente contro Kabul. La nostra stampa è sempre all’erta sui temi che fanno rima con misoginia, ed è tanto prolifica quanto scandalizzata e schierata quando si parla di diritti delle donne, segregazione e corporeità femminile ma sarebbe necessario riflettere bene anche da ovest sul fatto che lo si chiami burqa, chador, jiab o glass cliff (soffitto di cristallo) il capo delle donne resta, purtroppo ovunque senza eccezione, sempre eccessivamente coperto.