L’Isis, il tradimento, la fiducia, il potere e la morte. Gli ultimi dieci anni di Hajji Abdullah Qardash

Poco più di 23 chilometri separano Atimah e Barisha. Due città nel nord-ovest della Siria, quasi al confine con la Turchia, nella provincia dell’Idlib. Una strada sterrata collega le due città poverissime e inscritte nella povertà del conflitto siriano. A distanza di tre anni, i due piccoli agglomerati di poche case nel deserto siriano, hanno ospitato gli ultimi due leader dell’Isis, uccisi entrambi dalle forze statunitensi attraverso raid programmati delle forze speciali. Il vero nome di Hajji Abdullah Qardash è Amir Mohammed Said Abdel Rahman al-Mawla. La sua nomina a capo dell’organizzazione avviene nel 2019, subito dopo la morte di Al-Bagdadi, e questo portò a fratture e dissidi interni. Era colto, carismatico, un ottimo comunicatore, leader feroce, e un traditore.

Il tradimento di Camp Bucca
Nel 2008 le forze speciali statunitensi catturano Qardash a Mosul in Iraq e lo portano a Camp Bucca nei pressi di Umm Qasr. Camp Bucca era essenzialmente una prigione militare di guerra, utilizzata nel 2003 dalle forze militari britanniche. Negli anni la prigione conobbe un flusso di terroristi tanto da ricevere l’appellativo di “Accademia della Jihad”. Durante la prigionia Qardash inizia a collaborare con l’intelligence statunitense tanto da essere lui ad aprire l’organizzazione terroristica jihadista agli americani, spiegandone il funzionamenti, le dinamiche, i meccanismi di potere, le risorse, i territori, le figure.
Con quelle informazioni l’intelligence statunitense riuscì a portare a compimento almeno 20 arresti. Nei mesi successivi le informazioni che Qardash rilascia sono sempre più generiche e confuse, l’intelligence capisce che le intenzioni di collaborare sono terminate e lo rilascia. Nel 2014 rispunta il suo nome di nuovo tra i vertici dell’Isis. Secondo il Counter Extremism Project, Qardashi aiuta Al-baghdadi nella presa della parte settentrionale di Mosul. Mese dopo mese il carisma e l’alto profilo culturale portano Qardashi a guadagnarsi il soprannome di “Professore” dai più alti ranghi dello Stato Islamico. Era molto rispettato tra i membri dell’ISIL come un “politico brutale” ed era responsabile di “eliminare coloro che si opponevano alla leadership di al-Baghdadi” scrive Ali Haj Suleiman su Al-Jazeera in un reportage da Atmeh.
Ad Atimah nessuno sapeva chi fosse
Il motivo principale per cui l’Idlib è la regione in cui negli ultimi tre anni, due capi dell’Isis vi abbiano trovato rifugio, è l’assenza totale di paradigmi societari, che si riflette nell’assenza, ad esempio, di registri. La regione è sia lontana dal fronte occidentale dell’Iraq sia da quello orientale della Siria, dove il conflitto è più duro e popolato da forze anti Isis.

Una palazzina di tre piani in mezzo al deserto. Un agglomerato di case bianche ed una decina di famiglie nel raggio di un paio di chilometri. Nessuno conosceva la verità. I vicini pensavano che fosse un mercante di Aleppo che aveva trovato rifugio per se e per la propria famiglia vicino al confine con la Turchia, fuggendo da Aleppo e dai relativi luoghi infiammati del conflitto siriano. Secondo una testimonianza su Al-Jazeera, pare che nessuna delle famiglie della zona era a conoscenza della vera identità della famiglia del secondo piano.
Subito dopo il raid americano, diverse testimonianze hanno raccontato della vita apparentemente tranquilla che conduceva Qardashi nella provincia siriana. Il contratto di affitto dell’appartamento era stato firmato a marzo 2021 e sul contratto compare il nome di Moustapha Sheikh Youssef. Degli undici mesi trascorsi nell’appartamento i vicini non sanno nulla. Lo stupore ha colto le stesse forze speciali impegnate nel raid, tanto che alcuni minuti prima del raid, pensando che le famiglie dell’area fossero a conoscenza e complici del califfato, vengono amanettate e riverse con il viso rivolto al suolo. In un secondo momento la stessa intelligence statunitense ha confermato che i racconti dei testimoni coincidono con le informazioni raccolte. Qardashi, stando ai rapporti ripresi da diversi quotidiani dell’area, non era solito lasciare l’abitazione, utilizzando raramente il tetto della villetta per concedersi un bagno. L’intero processo di gestione della rete terroristica veniva coordinato attraverso corrieri che transitavano continuamente nell’area.
La morte
Immediatamente dopo la conferenza stampa in cui Joe Biden conferma che tra le 13 persone morte durante l’attacco, vi è Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, le fotografie fanno il giro del mondo. Mattoni sgretolati bianchi, vestiti inceneriti misti a mura piene di sangue.
Il raid inizia con diversi elicotteri che sorvolano l’abitato. In quella regione, erano più di due anni che non si vedevano elicotteri da combattimento americani volare ad una quota così bassa. Tre anni prima, a pochi chilometri da Atmeth era stato identificato e circondato Al-baghdadi, fattosi saltare in aria mentre cercava di scappare attraverso un tunnel sotterraneo scavato nelle cantine della sua abitazione. Qardashi giovedì segue lo stesso copione.
Nel piano superiore si trovano 13 persone tra bambini, donne e uomini, quando il palazzo viene circondato dalle forze speciali statunitensi. Non c’è via di fuga. Una forte esplosione segna la fine del raid e da il via all’identificazione degli obiettivi. Non vengono trovati superstiti. La mattina dopo compaiono le prime testimonianze di giubbotti con cinte esplosive. Prima dell’esplosione le contrattazioni sono andate avanti per due ore. Dalle testimonianze, a contrattare con gli statunitensi sarebbe stata la moglie del leader Qardashi. Nell’esplosione sono morti sei bambini, quattro donne e tre uomini.
I prossimi passi
A preoccupare, solo poche settimane fa, è stato l’assalto delle milizie nere al carcere siriano di Ghwayran, nel nord-est della siria. Il 20 gennaio, più di 100 uomini del califfato hanno preso d’assalto il carcere siriano, facendosi strada con 2 camion autobomba davanti ai cancelli del penitenziario. L’attacco aveva come obiettivo la liberazione di centinaia di miliziani detenuti, tra cui diverse figure di spicco dell’organizzazione terroristica. Si stima che prima dell’attacco, nel carcere siriano ci fossero 5.000 miliziani dello Stato Islamico, di cui 1000 sono riusciti nell’operazione di fuga. A due settimane di distanza, arriva la notizia della morte del leader dell’organizzazione. Colin P. Clarke, su Politico, pone l’accento su aspetto interessante per il futuro dell’organizzazione. Oltre alla futura leadership, che come era successo per Al-Baghdadi diventa sempre un punto cruciale, in quanto il leader dello Stato Islamico deve avere un carisma e una potenza comunicativa tale da tenere salda l’organizzazione in un momento non semplice, vi è da considerare tutta la rete di micro cellule in Africa e Asia che in un momento di alta tensione potrebbe aprire a decisioni e azioni indipendenti.