Covid-19. I connazionali all’estero dimenticati dalla Farnesina

Risiedere negli Stati Uniti da quasi un anno, perdere il lavoro a causa del coronavirus, venire sfrattati, chiedere aiuto al proprio Paese e non riceverlo. Non è la trama di un film, è la storia di Daniel Paoloni, un ragazzo romano tornato da pochi giorni in Italia da Orlando, e dei suoi colleghi.
Tante le domande e gli interrogativi di questo periodo, ma pochi si sono chiesti qual è la condizione dei connazionali che vivono e lavorano all’esterno, che vogliono o sono costretti a tornare in Italia.
Noi ne abbiamo parlato con Daniel, che lavorava presso Patina Restaurant Group, una compagnia che opera nella ristorazione ad alti livelli ed è sub compagnia di una corporazione, la Delaware North. È una compagnia che assume tramite Visto di scambio culturale con l’Italia e gli altri Paesi rappresentati nei parchi Disney. Daniel nello specifico lavorava in uno dei ristoranti italiani del complesso di Disney Springs da febbraio 2019. Ci ha raccontato la difficoltà di chi rimane senza lavoro negli Stati Uniti ed è costretto a tornare in Italia, un Paese che non ha mosso un dito per garantire la loro sicurezza.
Partiamo dall’inizio. Quando nasce il problema?
Circa a metà marzo, a causa dell’emergenza coronavirus, i parchi e tutte le attività secondarie della Disney sono stati chiusi, tra cui il centro commerciale in cui lavoravo. Siamo stati lasciati a casa e pagati un minimo settimanale di 36 ore dalla compagnia, quindi 300/350 dollari alla settimana da cui andavano decurtati affitto, assicurazione e tasse, quindi rimanevano 60/70 dollari alla settimana. Poi l’11 aprile gli stessi rappresentanti della compagnia, nella persona del General Manager e del Capo delle Risorse Umane, sono venuti nelle case che ci hanno messo a disposizione e in cui abitavamo per comunicarci il licenziamento e lo sfratto. Entro il 18 aprile avremmo dovuto lasciare le abitazioni e di conseguenza il Paese. Ovviamente non potevamo trovare neanche un altro alloggio perché il nostro Visto era collegato alla compagnia con cui avevamo un rapporto di lavoro, quindi non avremmo potuto rimanere negli Stati Uniti senza lavoro e nemmeno cercarne un altro regolare. Per di più, il 90 per cento dei ragazzi avvia l’assistenza sanitaria tramite la compagnia con cui lavora, che è sicuramente un po’ più costosa ma è molto buona e copre anche i casi di pandemia proprio come questo. Quindi saremmo stati sprovvisti anche di assistenza medica.
Come interpreti le decisioni della compagnia?
Tra i miei colleghi ci sono opinioni contrastanti, ma personalmente devo dire che la compagnia si è comportata bene, tranne per il fatto di averci concesso una settimana di tempo per lo sfratto. Per il resto credo che non potesse fare altro: come poteva sostenere quasi 300 ragazzi senza entrate? Nonostante il centro avesse chiuso a metà marzo, la compagnia ci ha fornito il minimo settimanale in virtù del nostro Visto (di rappresentanza culturale). I General Manager quando ci hanno comunicato che dovevamo andarcene hanno pianto per il dispiacere. Ci hanno dato la notizia veramente a malincuore.
La cosa più difficile credo sia stata prenotare il volo per rientrare in Italia. Perché?
Ovviamente il problema era il volo perché i posti sugli aerei sono molto limitati dal momento che per ogni fila è possibile far sedere soltanto un passeggero per rispettare le misure di sicurezza. Questo ha portato ad una riduzione notevole dei voli e all’impennata dei costi: il solo fatto di dover arrivare a New York, unico aeroporto che forniva voli per l’Italia, da Orlando è stato complicato perché i voli interni in America ora sono scarsissimi e costosissimi e quindi si iniziava a parlare di cifre sopra i 1500 dollari. Molti di noi sono stati fortunati a trovare un biglietto con un prezzo ragionevole, io per esempio l’ho pagato 840 dollari e tra Delta Air Lines e Alitalia sono riuscito a tornare a casa in maniera anche abbastanza sicura e in relativa puntualità. La difficoltà è dovuta anche al numero delle persone, eravamo 60/70 del mio gruppo e quasi 200 ragazzi lavoravano nel parco di Epcot, insomma poco meno di 300 ragazzi che dovevano organizzare un viaggio di ritorno, chiaramente poco fattibile, in una o due settimane.
Per questo vi siete messi in contatto con la Farnesina?
Sì, ma nel giro delle tre settimane in cui li abbiamo coinvolti non hanno trovato alcuna altra soluzione che non fosse quella di mettere a disposizione un volo, il 19 aprile, per i ragazzi che sono rimasti lì. Voleranno con la Neos Air, una piccola compagnia privata Italia. Fino a qualche giorno fa vivevamo in uno stato di totale insicurezza perché vedevamo che lo Stato italiano non era intenzionato a darci una mano, poi la situazione è un po’ cambiata con i reportage realizzati da alcuni ragazzi e con gli interventi del tg5 e del tg1. Soltanto in questo modo si è smossa un po’ la situazione e fortunatamente si è arrivati ad una soluzione che riporterà il resto dei ragazzi in Italia lunedì 20 aprile.
Quanti ragazzi sono rimasti a Orlando?
Del mio gruppo, circa 30 persone, mentre ad Epcot in cui c’è un gruppo più numeroso – sono quasi 200 persone – non saprei con precisione e onestamente non so nemmeno se rientrano in questo volo organizzato dalla Farnesina o meno. E se non sbaglio il costo del volo che prenderanno si aggira intorno ai 1000 dollari a persona, quindi circa 900 euro.
Non è scontato che tutti abbiano la possibilità di pagarsi dei biglietti così costosi. Ci sono stati problemi anche in questo senso?
Sì, anche questo è stato un problema. Chi come me era lì da più di un anno aveva dei soldi a disposizione per pagare il volo, in più la compagnia, proprio quando ha annunciato i licenziamenti, ci ha dato tre settimane di stipendio per aiutarci a pagare il volo. Chi invece era arrivato da poco non ha avuto la possibilità di mettersi da parte nulla e quindi si è trovato in difficoltà e nonostante i soldi inviati dalle famiglie e quelli messi a disposizione dalla compagnia ha fatto fatica a prenotare il volo per rientrare in Italia.
Per quanto riguarda la sicurezza negli aeroporti?
Innanzitutto è stato surreale vedere gli aeroporti di Fiumicino, New York e Orlando completamente deserti, soprattutto quello di Orlando che, essendo vicino ai parchi della Disney e della Universal, è un aeroporto che scoppia di gente tutto l’anno. È stato altrettanto impressionante vedere JFK, l’aeroporto di New York, completamente vuoto. Tutte le attività interne sono chiuse, tutti i voli cancellati tranne il nostro, su 11 voli 10 erano cancellati. Infatti correvamo anche il rischio che una volta arrivati da Orlando a New York ci dicessero che il volo per Roma era cancellato. Per quanto riguarda Orlando, non ci hanno fatto alcun controllo, ma chiaramente era obbligatorio indossare la mascherina all’interno dell’aeroporto e per tutta la durata del viaggio. Tutto il personale aveva guanti e mascherina, compreso il personale dei pochi fast food aperti per garantire il servizio minimo. Poi all’aeroporto di New York, prima di salire sul volo Alitalia, ci hanno misurato la temperatura. A Fiumicino, devo dire con amarezza e disappunto, che abbiamo fatto tutte le autocertificazioni del caso ma non c’è stato alcun tipo di controllo medico.
Nella tua zona a Orlando qual era il numero dei contagi?
La zona in cui vivevamo noi, Orange County, è stata la più colpita della Florida centrale con circa 2mila casi di contagio, quindi niente di troppo pericoloso. La vita andava in maniera abbastanza normale, per quanto tutte le attività fossero chiuse e soltanto i supermercati aperti. Le persone andavano a fare passeggiate, diciamo che gli americani hanno sottovalutato la situazione all’inizio.
Come giudichi l’operato della Farnesina e di conseguenza dello Stato italiano?
Lo Stato italiano ci ha veramente deluso. Siamo arrivati alla conclusione che l’Italia prima di attivarsi debba fare delle colossali figuracce, dal momento che quando abbiamo contattato la Farnesina autonomamente non abbiamo mai ricevuto risposte, la stessa cosa quando è intervenuta la compagnia, hanno trovato una soluzione soltanto con l’intervento dei media. Insomma, il comportamento dello Stato e del ministero degli Esteri ci ha lasciati abbastanza interdetti. Chiaramente io non so quali siano le dinamiche per organizzare un volo straordinario in una situazione di emergenza, ma immagino che uno Stato abbia il potere di piegare certe regole e dire “noi dobbiamo far tornare 300 connazionali in Italia in massima sicurezza”, cosa che invece è stata fatta solo all’ultimo e forzata dagli eventi. Anche la stessa Alitalia ci ha fatto rimanere un po’ disgustati perché io sono riuscito a rimanere sotto i 1000 dollari per il mio biglietto, ma altri ragazzi che sono tornati insieme a me hanno speso anche 1600 dollari. Bastava che Alitalia stabilisse un prezzo unico per tutte le classi anche perché adesso a prendere quei voli sono italiani che tornano a casa, non certo turisti americani che fanno un viaggio in Italia.