Norvegia e prospezioni marine: aperto il vaso di Pandora
Cobalto, magnesio, zinco, rame, litio… Minerali e metalli rari giacciono in fondo agli oceani, accendendo le mire di molti Stati e imprese.
La Norvegia ha fatto, pochi giorni fa, un primo passo nei confronti dello sfruttamento aprendo i suoi fondali alla prospezione mineraria.
Scienziati e ONG richiamano l’attenzione sui rischi per l’ambiente e il clima.
La Norvegia sta aprendo il vaso di Pandora? Lo scorso 9 gennaio, il Parlamento norvegese si è pronunciato a favore dell’apertura alla prospezione mineraria in una vasta regione marittima dell’Artico. Il Paese è così diventato il primo al mondo a fare un passo avanti verso lo sfruttamento dei suoi fondali.
In totale, circa 280.000 chilometri quadrati di oceano – quasi le dimensioni dell’Italia – potranno essere scandagliati nella ricerca di minerali. Una prospettiva inquietante a sentire alcune ONG e paladini dell’ambiente che, da diversi anni, mettono in guardia l’opinione pubblica sulla pericolosità di inviare macchinari a scrutare il fondo dei mari.
Le acque profonde, spesso situate al di là dei limiti territoriali degli Stati, brulicano di metalli molti dei quali sono rari – è il caso del nichel, del rame, del cobalto, dello zinco o del litio. Ora, questi elementi entrano nella composizione di numerosi oggetti parte integrante della transizione ecologica come le batterie delle macchine, le eoliche o i pannelli solari. Quando uscire dall’esclusività del petrolio e iniziare questa transizione diventa sempre più pressante per lottare contro il cambiamento climatico, alcuni Paesi ritengono indispensabile aumentare il loro accesso a questi metalli.
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, la richiesta di minerali come minimo raddoppierà, da qui al 2040.
Questo è l’argomento principale annoverato dalla Norvegia per spingere il progetto. Il Paese assicura aver bisogno di questi minerali per portare a termine la sua transizione ecologica. Le acque norvegesi pare siano effettivamente molto ricche: secondo una stima del Norwegian Petroleum Directorate a Oslo, il fondale oceanico a largo delle coste norvegesi potrebbe contenere fino a 45 milioni di tonnellate di zinco, 38 milioni di tonnellate di rame, così come enormi quantità di altri metalli e terre rare.
Ma di fronte al tema “ambiente”, gli scienziati e gli ecologisti denunciano una “soluzione distorta”, che avrebbe, al contrario, conseguenze disastrose. Molti ricercatori ritengono che non esista una estrazione ecologica o sostenibile, che questo sia un controsenso. Appena verranno posati i macchinari sul fondo dell’oceano, tutto ciò che vive lì verrà distrutto, sentenziano i più pessimisti.
Ad onor del vero sappiamo molto poche cose su cosa succeda a diverse centinaia di metri sotto la superficie, e gli ecosistemi che ci vivono sono ancora quasi sconosciuti. Conosciamo meno la geografia degli abissi che quella della superficie lunare. Viene chiesto che la ricerca scientifica in questo campo sia portata avanti il più possibile, prima di prendere in considerazione qualsiasi tipo di sfruttamento.
Per scienziati e ambientalisti deve prevalere il principio della prudenza.
La prospezione, o la semplice esplorazione, potrebbe anche intervenire sulla capacità dell’oceano ad assorbire il CO2. In effetti è il più grande pozzo di carbonio del mondo: assorbe da solo il 93% dell’eccesso di calore indotto dalle attività umane, rivela l’ONU. È quindi uno degli alleati maggiori nella lotta contro il riscaldamento climatico. Smuovendo i fondali, si potrebbe liberare il CO2 che vi è imprigionato, andando a saturare questa sua capacità di assorbimento.
Al di là di questi rischi, chi vuole portare avanti il progetto dovrà affrontare un ostacolo non indifferente prima di raccogliere i preziosi metalli: trovare il mezzo per andare a cercarli in fondo all’oceano, in zone sconosciute e ad alta pressione, sempre tenendo conto che l’operazione rimanga economicamente valida.
Secondo gli esperti questi minerali si trovano in tre ecosistemi distinti. E ognuno di loro pone problemi diversi. Alcuni metalli si trovano in zone vulcaniche, dove convergono placche tettoniche. L’acqua si infiltra nelle faglie dove si scalda fino a raggiungere i 350 gradi, e trattiene una enorme quantità di metalli. Arriva poi nelle acque profonde a due gradi, rilasciando i metalli per via dello scarto di temperatura. Questi sono quelli che oggi riusciremmo a recuperare più facilmente perché sono concentrati in un solo posto. Bisogna raschiare il fondo con un escavatore e aspirare i metalli. Piccolo problema: così si aspirerebbe tutto quello che c’è intorno.
L’altro tipo di giacimento si trova nelle pianure abissali, vaste zone poste tra i 2.000 e 6.000 metri di profondità, soprattutto nel Pacifico. Qui i metalli si accumulano per reazione chimica in piccole croste. Cercarli necessiterebbe raschiare decine di Kmq. Difficile da difendere sotto il punto di vista sostenibile.
Infine, le incrostazioni di cobalto sono dei tappeti spessi qualche centimetro, ricchi anch’essi in minerali, che ricoprono i fianchi dei monti sottomarini. Oggi non sapremmo come estrarre queste leghe senza distruggere tutto.
Sulla carta la ricerca dei minerali sotto gli oceani per aumentare la propria indipendenza economica appare allettante. Ma quando si scava, ci si rende conto che da un punto di vista economico forse non è così.
Di fronte a tutti questi ostacoli e potenziali pericoli, ancora nessun permesso di estrazione è stato dato dall’Autorità Internazionale per i Fondali Marini (International Seabed Authority), ente intergovernativo fondato nel 1994 per coordinare e controllare tutte le attività connesse ai minerali presenti nei fondali marini internazionali oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali.
Con la sua decisione, la Norvegia manda tuttavia un segnale all’industria mineraria, e cioè che la strada verso lo sfruttamento rimane praticabile. Altri Stati sicuramente intraprenderanno questo percorso.
Ma il segnale inviato da Oslo rimane comunque molto mitigato. Prima del suo voto, la Norvegia ha dovuto far fronte a molte pressioni sia nel Paese che all’estero. I numerosi studi pubblicati dagli esperti del settore, che mettevano in risalto i potenziali rischi ambientali di questi progetti, hanno prodotto una petizione online realizzata dalla ONG Avaaz e firmata da mezzo milione di persone.
I parlamentari hanno dovuto respingere la richiesta del governo riguardante lo sfruttamento dei fondali marini, e votato la sola prospezione.
Prima di rilasciare i permessi per lo sfruttamento, la questione dovrà essere sottoposta nuovamente a votazione.
Peraltro, se molti Paesi non vedono l’ora di scandagliare i fondali per trovare nuovi tesori, come la Cina e numerose isole del Pacifico, sempre più Stati preferiscono smarcarsi dal progetto.
Nell’UE, la decisione controversa presa dalla Norvegia ha messo in luce una non trascurabile spaccatura tra destra-sinistra in seno al Parlamento europeo. È vero che la Norvegia non fa parte dell’Unione Europea, ma il Parlamento europeo ha voluto, subito dopo il voto del Parlamento norvegese, aprire un dibattito sulla questione.
Le formazioni di sinistra hanno definito la decisione norvegese come “irresponsabile” (Cesar Luena, Gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici). Anche i liberali di Renew Europe hanno giudicato la decisione come “prematura”, appellandosi alla prudenza, almeno fino a che non vengono colmate le lacune scientifiche (Catherine Chabaud).
Non tutti i parlamentari europei si sono opposti alla Norvegia. Gli eurodeputati di destra accusano i loro omologhi di ipocrisia per essersi opposti agli sforzi di un Paese vicino democratico volti ad aumentare la disponibilità di materie prime quando l’Unione dipende sempre da Stati non-democratici per i suoi approvvigionamenti, vedi per esempio la Repubblica Democratica del Congo dove sfruttamento minorile e abuso dei diritti umani e corruzione sono all’ordine del giorno, per non parlare dello smaltimento dei rifiuti derivanti da queste estrazioni (Tom Berendsen, PPE).
Sono state messe sul tappeto anche questioni come la potenziale violazione del Trattato delle Nazioni Unite sul mare aperto, l’Accordo di Parigi e la convenzione OSPAR sulla protezione dell’ambiente marino nell’Atlantico del Nord Est.
Ricordiamo che nel dicembre scorso, l’Unione ha adottato la legge sulle “materie prime critiche” affinché si alleggerisse la dipendenza nei confronti della Cina e diversificare le varie catene di approvvigionamento.
La Commissione europea e il Parlamento europeo hanno lanciato un appello per chiedere una moratoria internazionale sullo sfruttamento dei minerali in acque profonde fino a che la scienza avesse più certezze in materia. Pesca e ambiente sono le due maggiori preoccupazioni.
Solo 7 Stati membri dell’UE: Francia, Germania, Svezia, Irlanda, Finlandia e Portogallo hanno apertamente appoggiato questo appello, mentre altre capitali, come il Belgio, preparano una legislazione che minaccia di rompere i ranghi con la posizione dell’UE.
Anche giganti come Google, BMW e Samsung si sono impegnati a non utilizzare i minerali estratti dai fondali marini in seguito ad un appello lanciato nel 2021 dal WWF.
La decisione di Oslo solleva anche potenziali conflitti territoriali. La zona proposta per lo sfruttamento minerario comprende anche le isole Svalbard nell’Artico, una zona sotto sovranità norvegese ma dove altre Nazioni, compresi UE e Regno Unito, hanno storicamente beneficato di eguali diritti in materia di commercio nelle sue acque (trattato di Svalbard 1920).
Il Consiglio dell’AIFM tenta da decenni di elaborare un codice minerario per inquadrare un eventuale sfruttamento dei fondali marini. Si è fissata l’obiettivo di adottarlo entro il 2025, ma di fronte alle molteplici divergenze sul testo, i negoziati stagnano.
Pare che rimangano troppi interrogativi, sia sull’impatto che sulla fattibilità, tanto che sempre più compagnie riflettano su come fare a meno, in futuro, di questi metalli.
Lo sfruttamento minerario dei fondali marini sarà forse inutile ancora prima di concretizzarsi.