Soliloquio e altre pagine autobiografiche

Il Soliloquio è una preziosa raccolta di scritti autobiografici di Benedetto Croce. Il compianto Galasso, curatore dell’opera, è riuscito a farci vedere dall’interno l’ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso, svelandoci in questo modo le ragioni profonde di un’attività intellettuale tanto ricca e ancora inesplorata.
Galasso ha infatti tenuto per oltre quarant’anni un diario, con l’austero intento di “invigilare me stesso per l’utile distribuzione delle mie giornate”. Croce, come scrive Galasso, fu il primo biografo di sé stesso: scrisse per primo Contributo alla critica di me stesso nel 1905 e poi, quarant’anni dopo la sua morte, fu pubblicata l’opera Taccuini di lavoro, in cui, oltre alla passione per gli studi e le ricerche, vi si trova tanto della sua vita personale e familiare.
Il nipote di Benedetto Croce, il professor Piero Craveri, scrive la prefazione de il Soliloquio. Una raccolta di scritti e pensieri che ci consente di rappresentare un Benedetto Croce inedito, capace di raccontare la sua prospettiva in merito a tante questioni della storia d’Italia. Craveri aveva 14 anni quando, nel 1952, il nonno Benedetto Croce si spense a Napoli all’età di 86 anni. Craveri ci offre uno spaccato chiaro dell’intellettuale, nonostante la distanza nel tempo e la nota irraggiungibilità della sua figura.
Sono molti, in Soliloquio, gli aspetti della vita di Croce: dall’infanzia all’insegna delle materie letterarie e filosofiche, all’intimità del dolore – dopo la morte dei genitori e di una sorella nel terremoto di Casamicciola del luglio del 1883 – che lo portò a soggiornare a Roma.

Una città che lo costringerà a confrontarsi con la politica, del cui odore erano pregne le stanze della casa di suo zio, Silvio Spaventa. Fu affascinato dal Labriola che lo aiutò a decidersi per la razionalità: “E quelle le lezioni vennero incontro inaspettatamente al mio angoscioso bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri, avendo perso la guida della dottrina religiosa e sentendomi nel tempo stesso insediato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più e meno larvato”.
E più avanti continua: “Pure se dovessi dire qual era il disegno di vita che in quel tempo mi si era formato in mente, non potrei non chiamarlo pessimistico: consistendo da una parte nel lavoro letterario ed erudito, compiuto per vaghezza naturale e per far qualcosa al mondo; e dall’altra, nell’adempimento dei doveri morali, concepiti soprattutto come doveri di compassione. Nel che c’era dello spirito cristiano, particolarmente in una sorta di paura del godere e della felicità, quasi colpe che aspettino castigo o che convenga farsi perdonare, e c’era, come più tardi intesi, dell’egoismo, perché la vera e alta compassione e benevolenza è quella che si pratica col mettere in armonia tutto sé stesso coi fini della realtà e col costringere anche gli altri a muoversi verso questi fini, e il buon cuore si fa veramente e seriamente buono con la sempre più larga e profonda intelligenza delle cose”. Racchiusa in poche righe una sapienza del cuore del Croce che forse non è stata ancora indagata a sufficienza.
Ma gli studi di Croce sull’essenza dell’arte e della storia ci offrono una fondamentale chiarificazione filosofica delle sue concezioni. E rispetto a questo, il nostro affronta il problema dell’unità e della distinzione, cosa che aveva già fatto nell’Estetica: egli parte dalla necessità del legame fra unità e distinzione, e definisce il bello, il vero, l’utile e il buono come concetti distinti, che come tali nella loro interdipendenza, sono sempre da vedere in una relazione di unità. E questo suscita una relazione con l’unità dello spirito dove possono essere denominati e “contati singolarmente solo considerando le necessità dell’esposizione, mentre in fondo essi sono inseriti in un’ideale connessione indissolubile, sono uniti in ogni loro distinzione e la loro unità si realizza proprio nella loro distinzione, e attraverso di essa è possibile cogliere l’unità”.