La madre di George o sulle madri opprimenti

Per la collana “Introvabili” Minimum Fax ha recentemente edito La madre di George, romanzo breve dello scrittore americano Stephen Crane, precursore e uno dei maggiori maestri del Naturalismo americano. L’opera si veste della traduzione di Luca Briaschi e ci viene restituita per avere l’ideale completamento di una trilogia sulla quale troppo poco si è detto.

Se prendiamo per assunto che la letteratura, così come ogni forma d’arte è, per forza di cose, speculum vitae, non si può leggere Crane senza prendere in considerazione la breve ma intensa vita che ha trascorso. Paul Auster, tra i maggiori scrittori americani viventi e, in parte, se si considera la Trilogia di New York, ideale erede del realismo di Crane, gli ha dedicato la monumentale opera Ragazzo in fiamme. Un modello dimenticato che, seppur contemporaneo a Conrad e a Wells, non ha goduto della stessa fortuna ma ha lasciato un’impronta indelebile sui successivi Hemingway e Fitzgerald.
“Crane ha cambiato le regole del gioco. Ha elevato l’arte di narrare, portandola su un altro piano. Ha liberato il romanzo statunitense dalle convenzioni che lo tenevano soggiogato da centocinquant’anni.”
Paul Auster
Scrittore prolifico di romanzi, racconti e righe (poesie) come lui amava chiamarle. Sebbene non raggiunse i 30 anni, il primo romanzo Maggie: ragazza di strada uscì nel 1893 ed è ad oggi considerato la pietra miliare del Naturalismo letterario statunitense. Di due anni dopo Il segno rosso del coraggio, con cui si inizia far conoscere, per approdare infine a La madre di George che, idealmente, completa questo trittico.

George Kelcey ha 30 anni, vive ancora con la madre in un modesto appartamento, ha un lavoro in fabbrica che svolge in modo alienato, senza alcun reale interesse. Guarda con ammirazione al gruppo di amici alcolisti che frequenta, questi ultimi, in verità, a malapena lo considerano realmente. Ha un amore segreto per una fanciulla che vive nel suo stesso palazzo, prova un furore eroico ma non riesce a esprimerlo. Si sente pronto a grandi cose, sa dentro di sé che la vita ha per lui progetti incommensurabili. Ma se lo guardiamo bene, sin dalla prima immagine che Crane ci fornisce: “avanzava […] con una postura che suggeriva un palese disagio”; abbiamo davanti ai nostri occhi un antieroe destinato al fallimento. Lo si percepisce sin da subito, nei modi di fare, nelle incertezze verso gli amici, negli slanci vitali euforici che sconfinano quasi sempre in un crollo emotivo, in una palese incapacità a gestire la vita adulta. Kelcey è un inetto americano che molto piacerebbe a chi ama calare sul testo la griglia della critica psicanalitica. Lo sguardo altrui gli porta sofferenza, scuote il suo animo fragile, l’ira è destinata solo a un essere umano: la madre.
L’intero romanzo risente dell’affannosa e pressante immagine di questa donna piccola e querula che tratta George come se fosse ancora un bambino. Gli sistema le vesti, gli prepara i pasti, lo sveglia la mattina e si preoccupa anche di un leggero ritardo del figlio. Di converso, Kelcey si crogiola in questo rapporto, non riesce in alcun modo a recidere il cordone ombelicale. Questa frustrazione si ripercuote in tutte le sue inabilità e l’unico momento di momentanea ribellione coincide con un rabbioso sfogo e un intimo desiderio di operare un matricidio che poco ha di freudiano. Un sadismo, una schadenfreude in piena regola:
“George meditava sulla sofferenza di sua madre e provava una strana gioia per averla provocata”.
Ma fino a che punto è giusto dare la colpa di non saper vivere a chi la vita ce l’ha data?
Crane è un grande autore e con La madre di George anticipa interrogativi che ancora oggi ci poniamo sul rapporto genitore-figlio.