The Book of Boba Fett: perché è solo un riempitivo

Cinematograficamente parlando, i prossimi due anni saranno stracolmi di grandi ritorni.
La riapparizione i pompa magna di Tobey Maguire ed Andrew Garfield (con rispettivi avversari) nel recente Spider-man: No Way Home ci sembrerà a malapena la punta della punta dell’iceberg, se pensiamo a tutti i grandi attori a ci stiamo preparando a dare il bentornato: da Ewan McGregor come Obi-Wan Kenobi ad Hayden Christensen come Anakin Skywalker, da Patrick Stewart come Charles Xavier a Natalie Portman come Jane Foster, passando per Michael Keaton e Ben Affleck che riprenderanno i panni delle rispettive iterazioni di Batman in Flash con Ezra Miller.
Insomma, sono ormai un paio d’anni che i produttori fanno molta leva sull’effetto nostalgia, e viene dunque naturale chiedersi da dove sia effettivamente partito tutto questo: qual’è stato il primo mattone di questo gigantesco monumento fatto di revival?
Ebbene, forse è cominciato tutto verso la fine del 2020, quando al termine del primo epidsodio della seconda stagione di The Mandalorian ha fatto capolino Temuera Morrison, che i fan affezionati di Star Wars hanno imparato dal 2002 ad associare al volto smascherato del cacciatore di taglie Jango Fett e al suo ben più famoso clone Boba.
Fin dalla sua primissima apparizione nell’ormai remoto 1980 Boba Fett si è catapultato di prepotenza nel cuore dei fan, anche se, ammettiamolo, più grazie al suo design, d’impatto e riconoscibilissimo, che alla sua caratterizzazione, visto che durante tutto L’Impero Colpisce Ancora pronuncia solo un paio di battute.
Alla luce di ciò, una serie su di lui non rappresentava semplicemente un’occasione per approfondire il sottobosco criminale di Star Wars, non era solo un modo per ingannare l’attesa della terza stagione di The Mandalorian, ma era anche e soprattutto l’occasione per dare finalmente ad un personaggio così amato una caratterizzazione degna di questo nome.
Dunque, in attesa del ritorno di Obi-Wan Kenobi, scopriamo insieme se Disney ha portato a termine l’incarico in modo soddisfacente.
Il buono, il brutto e il mandaloriano
Già dai trailer era evidente come The Book of Boba Fett si sarebbe rifatto a due generi narrativi che fin dagli esordi hanno influito sulla saga di Star Wars: il crime e il western.
Per quanto riguarda quest’ultimo genere, l’omaggio riesce alla perfezione: tra cacciatori di taglie, sparatorie, assalti a treni e sterminati paesaggi desertici ci sembrerebbe quasi di star vedendo Sentieri Selvaggi se non fosse per le pistole laser.
Ma esattamente come capita con i western contemporanei, anche questa narrazione viene condizionata dalla sensibilità contemporanea, ed ecco che se nei vecchi capitoli della saga ci si poteva tranquillamente permettere di rappresentare una razza come stupida e violenta per natura, in The Book of Boba Fett anche i Sabbipodi ottengono il loro riscatto: da pericolosi e animaleschi, i Predoni Tusken divengono più simili a dei “buoni selvaggi”, un po come i Fremen di Dune, con una loro cultura e delle loro tradizioni ben codificate, che oltre a renderli più affascinanti e stratificati come personaggi, finiranno per avere un ruolo nello sviluppo del personaggio stesso di Boba Fett.

Ma se il lato western della galassia lontana lontana viene reso alla perfezione, lo stesso non si può dire per quello criminale.
C’è da dire che per quanto molto presente nella saga fin dagli albori, i signori del crimine del mondo di Star Wars non sono mai stati oggetto di particolare approfondimento: di loro sappiamo che sono in combutta con l’Impero, hanno un botto di cacciatori di taglie al loro servizio e ogni tanto mettono il bikini alle principesse, ma per il resto non si può dire che le loro attività siano state descritte nel dettaglio, cosa che ti fatto concedeva agli sceneggiatori l’occasione di definire questo mondo in libertà quasi totale, occasione che è stata gettata bellamente alle ortiche.
Ancora oggi, l’effettivo ruolo di un Signore del Crimine, o Daimyo, non è effettivamente chiaro: è legalmente riconosciuto? È amato o odiato dai cittadini? Ha dei codici di condotta da rispettare? Di quali genere di attività si occupa?
A qualcuno sembreranno domande inutili o marginali, ma sono in realtà estremamente importanti per comprendere il contesto nel quale si sviluppa la storia, e se il contesto non viene mai spiegato c’è sempre una piccola parte della storia che manca.
E comunque, per quanto il ruolo di un gangster di Star Wars possa essere differente rispetto a quello della sua controparte realistica, il mancato approfondimento di questo aspetto della storia finisce per chiudere le porte anche ad altre possibili tematiche totalmente nuove per il mondo creato da George Lucas.

Prendiamo ad esempio la famigerata Mod Gang, un gruppo di nuovi personaggi creati apposta per la serie, fin da subito oggetto di critiche e meme di ogni tipo a causa della loro estetica a metà strada tra la trap e il cyberpunk: il primo incontro tra Boba Fett e i nostri ragazzacci di strada avviene quando questi rubano delle riserve di acqua attirando l’attenzione del Daimyo, e quando questi chiede spiegazioni, la loro risposta è sostanzialmente “c’è crisi”.
Aldilà dell’ironia, sarebbe stato interessante dare una visione diversa dal solito della galassia lontana lontana, vedere come persino in un luogo che abbiamo sempre visto come distante dal nostro mondo potessero inserirsi problematiche tipiche del nostro quotidiano come la delinquenza o il degrado urbano, e il modo in cui tale potenziale è stato sprecato per raccontare l’ennesima storia in cui qualcuno spara a qualcuno rende ancora più grave come il lato crime di Star Wars sia stato nuovamente ignorato.
“Mos Espa, abbiamo un problema”
Alle pecche legate alla gestione del sottobosco criminale di Tatooine si aggiungono quelle legate alla gestione della trama. Riassumendo, si potrebbe dire che le prime cinque puntate hanno una struttura molto simile a quella di Arrow: scene ambientate nel passato che chiariscono come si sia arrivati alla situazione attuale, e scene ambientate nel presente, nelle quali non si fa altro che preparare lo scontro finale andando ad introdurre sempre nuovi personaggi che poi andranno ad ingrossare le fila degli alleati di Boba.
Pensate quindi quanto dev’essere sorprendente quando nella quinta puntata ci viene sbattuto in faccia l’unico vero colpo di scena della serie, ossia il fatto che praticamente tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento è completamente inutile.
Ebbene sì, poco importa quanto la serie si sia impegnata fino a quel momento a introdurre nuovi personaggi: che si tratti della Mod Gang, di Black Krrsantan, del maggiordomo del sindaco o dell’addestratore di Rancor (per il quale è stato scomodato addirittura Danny Trejo), la serie non perderà un minuto per sviluppare anche solo minimamente tutte queste nuove aggiunte, poiché, probabilmente dopo essersi accorta di non avere la più pallida idea di come inserirli all’interno di una trama soddisfacente, decide di trasformarsi nella terza stagione di The Mandalorian, rendendo quindi The Book of Boba Fett propedeutica alla comprensione delle avventure di Mando e Grogu (con buona pace di chi non era interessato a vederla).

E se la tamarragine dello scontro finale (nel quale viene coinvolto anche Cad Bane, vecchia conoscenza dei fan di The Clone Wars) è abbastanza tamarra da compensare il caos nella narrazione, non compensa altrettanto bene il fatto che alla fine della storia abbiamo visto veramente poco di Boba Fett, e quel poco che abbiamo visto risulta decisamente insoddisfacente, soprattutto se pensiamo a come la gente pensasse a questo personaggio prima della serie.
Il protagonista propostoci dalla serie tv è tremendamente fiacco e debole, e il bello è che se gestito nel modo adeguato questo poteva essere un pregio: sarebbe stato interessante assistere alle vicissitudini di un cacciatore di taglie ormai senile, stanco di quelle violenze, intrighi e tradimenti che sono stati il suo pane per tanti anni, ma con ancora abbastanza rabbia e determinazione per non piegare la testa davanti a chi ne mina l’autorità.
Il personaggio qui presentato invece è letteralmente una vittima degli eventi, incapace di avere un ruolo ben preciso nel sottobosco criminale di Mos Espa, di mostrare autorità e spietatezza, o di riconoscere una cospirazione letteralmente sotto il suo naso.
Ma di tutti i modi in cui era possibile snaturare il personaggio, quello più grave è stato senza dubbio alcuno privarlo della sua ambiguità: alla fine ciò che ha sempre reso Boba Fett affascinante ed inquietante al tempo stesso è stato il suo essere misterioso e imperscrutabile dietro quel casco che ne celava il volto come le effettive intenzioni, e questa serie non si limita ad uccidere qualunque possibilità avesse il personaggio di incutere timore, ma arriva a disintegrarne l’ambiguità, rendendolo una figura totalmente positiva.

Insomma, The Book of Boba Fett è un prodotto solo in parte riuscito, che offre certamente del buon intrattenimento, ma ciò non basta a compensare una trama troppo povera con un protagonista snaturato, ma soprattutto a giustificare un’operazione di marketing che costringe letteralmente a gurdarla per comprendere l’andamento dei prodotti futuri legati a Star Wars.
Nel migliore dei casi vi renderà più gradevole l’attesa per il ritorno del Mandaloriano, nel peggiore dei casi vi sentirete vagamente presi in giro da Topolino, la cui gestione del mondo di George Lucas comincia a diventare inquietantemente simile a quella di Anakin Skywalker da parte dell’imperatore Palpatine.