Cosa ci è rimasto di Hawkeye?

Okay, diciamocelo chiaramente fin da adesso: a nessuno è mai importato più di tanto di un prodotto stand alone dedicato a Occhio di Falco, quel poco di attenzione che la serie ha ricevuto è stato più che altro dovuto all’azzeccatissimo casting di Hailee Steinfeld nei panni di Kate Bishop e al quanto mai preannunciato ritorno di Vincent D’Onofrio nei panni del suo (ormai non più così tanto) temibile Kingpin, e l’oblio di dimenticanza nel quale la serie sembra essere precipitata dopo giusto tre mesi dalla sua conclusione sembra purtroppo confermare questa tesi.
E il fatto di essere stata rilasciata praticamente in concomitanza con il film evento Spider-man: No Way Home non ha certo contribuito a farla conficcare nelle nostre teste come le frecce scagliate dai due protagonisti.
Ma d’altronde è la qualità a determinare il livello di un’opera, non certo l’attenzione del pubblico, un pubblico che, sommerso com’è al giorno d’oggi da un numero ormai incalcolabile di serie, film, eventi, easter eggs, annunci e trailer, è sorprendente che riesca a focalizzarsi per più di due settimane su un singolo prodotto.
Quindi, in attesa dell’arrivo su Disney+ del misterioso Moon Knight, distraiamoci con una bella retrospettiva sulle avventure in solitaria dell’arciere più amato della Casa delle Idee, per stabilire finalmente se Hawkeye abbia o meno fatto centro.
Una freccia che colpisce al cuore
Partiamo col dire che per quanti problemi Hawkeye possa avere, questi non riguardano in alcun modo il suo duo di protagonisti.
Certo, non si può dire che Kate Bishop brilli per originalità né tanto meno per profondità: nel suo reiterare lo stereotipo del giovane eroe inesperto e con la battuta sempre pronta, che assilla il suo idolo Avenger fino a guadagnarne il rispetto e diventare il suo pupillo, la nostra protagonista risulta quasi essere una riproposizione al femminile dello Spider-man di Tom Holland, ma a renderla memorabile è senza dubbio la bravura e il carisma della sua interprete Hailee Steinfeld, e nelle sue più che riuscite interazioni con gli altri personaggi, in particolare sua madre Eleanor (Vera Farmiga), Jack Duquesne (Tony Dalton) e soprattutto il suo mentore Occhio di Falco.

Sono ormai superati quei giorni in cui Clint Barton era liquidato come il più inutile degli Avengers, essendosi addirittura costruito uno zoccolo duro non indifferente di accaniti estimatori, grazie all’ormai decennale interpretazione di Jeremy Renner e alle inaspettate svolte intraprese dal suo arco narrativo (soprattutto in Avengers: Endgame).
Ma ciò che è veramente da lodare nella gestione del personaggio all’interno della serie che ne porta il nome, è come questa sia riuscita a rendere quello che fino a poco tempo fa era considerato il suo punto più debole il suo tratto più affascinante: la sua umanità.
Certo, già ai tempi di Avengers: Age of Ultron ci era stato fatto capire in maniera alquanto evidente come quel semplice uomo con un arco e delle frecce fosse il collante di quella folle squadra di supersoldati, mostri gamma e semidèi, ma in questo caso la natura fortemente terrena del nostro eroe non serve a fare da contraltare alla superiorità dei suoi compagni di squadra, bensì a caratterizzarlo come personaggio in sé per sé: un personaggio che tra una battaglia e l’altra accompagna i figli a teatro, monta addobbi natalizi o partecipa a giochi di ruolo a Central Park, ma che soprattutto porta su di sé i segni dei suoi anni di battaglie.
Nella fattispecie, la sottotrama riguardante i problemi di udito del personaggio è gestita alla perfezione: certo, non si tratterà del primo protagonista di un film o di una serie Marvel con una disabilità, ma è sempre affascinante vedere un eroe fare i conti con i propri limiti fisici, ed inoltre tale limite gli permette di interfacciarsi in maniera efficace con l’antagonista principale, la Maya Lopez di Alaqua Cox (sulla quale ritorneremo più avanti).

E continuando a parlare di personaggi provenienti dai film, non possiamo non citare il graditissimo (per quanto tutt’altro che inaspettato) ritorno della Yelena Belova di Florence Pugh, le cui irresistibili interazioni con Kate Bishop valgono da sole la visione di tutte e sei le puntate.
Ma protagonisti ben riusciti e buone interazioni non bastano certo a impedirci di notare quando la serie manca il bersaglio…
Il Suono del Silenzio
Il titolo del paragrafo, oltre che al noto brano Simon & Garfunkel, fa riferimento a Maya Lopez/Echo, personaggio interpretato dalla sordomuta Alaqua Cox, la quale purtroppo risulta essere uno dei punti deboli della serie. Nonostante gli interessanti parallelismi con lo stesso Clint Barton, dati dalla loro comune sordità, il suo arco narrativo risulta essere il meno efficace della serie: il minutaggio che le viene dedicato è letteralmente troppo poco affinché lo spettatore possa essere coinvolto dalla sua vicenda, il fatto che si tratti della prima donna nativo americana del MCU (nonché seconda donna sordomuta) non basta a distrarci da come il personaggio in sé per sé sia poco più che una riproposizione del classico boss criminale che cade talvolta preda delle proprie emozioni, e il fatto che sia a capo dei Mafiosi in Tuta, forse il gruppo di antagonisti meno credibile dell’intero franchise, decisamente non aiuta.

A compromettere la riuscita di questo antagonista però non è tanto la sua scrittura, quanto i toni adottati per la serie in sé per sé: diciamocelo, cercare di far funzionare un personaggio come Echo, la quale ricordiamo essere stata originariamente introdotta sulle cupe pagine di Daredevil, in un prodotto con le atmosfere di uno speciale natalizio di Disney Channel è un po’ come cercare di inserire Jason Voorhees in una puntata di Peppa Pig, ed ecco che anche la scelta di sfruttare Hawkeye per reintrodurre l’amatissimo Kingpin di Vincent D’Onofrio si rivela controproducente, tant’è che ora come ora la speranza è che lo show spin off dedicato interamente ad Echo possa rendere realmente giustizia alla controparte cartacea.

Insomma Hawkeye è il classico prodotto Marvel di transizione, non così brutto da andare a compromettere il franchise, non abbastanza bello da risultare effettivamente memorabile: i protagonisti convincono, ma gli antagonisti risultano del tutto fuori contesto, le atmosfere leggere rendono il prodotto godibile nella sua interezza, ma l’intreccio è così scarno che su sei puntate, soltanto in due sembra accadere effettivamente qualcosa, e il timore di chi vi scrive è che questa possa diventare una norma, che nonostante le promesse di fare della Fase 4 un’occasione per sperimentare maggiormente, i Marvel Studios si siano ormai seduti sugli allori e che la strategia futura sia quella di proporre una serie di prodotti di qualità medio bassa che il pubblico più fidelizzato si sorbirà a cervello spento gridando al capolavoro, lasciando quindi che il resto degli spettatori, ormai stanchi, si dirigano verso altri lidi.
Chi vi scrive si augura che non vada così, perché alla fine il MCU non è così diverso da Clint Barton: finché ha frecce al suo arco può combattere fianco a fianco con supersoldati, mostri gamma e semidèi, ma quando queste finiscono quel che rimane è un semplice uomo comune che cerca di combattere gli alieni.