DCEU: Storia tragicomica di un franchise maledetto

Con l’uscita della famosa (o famigerata, dipende dal punto di vista) Snydercut, la riedizione del cinecomic del 2017 Justice League come voluto originariamente dal suo autore Zack Snyder prima di essere sostituito alla regia da Joss Whedon a causa di una tragedia famigliare, il DCEU (DC Extended Universe), universo cinematografico concorrente diretto del MCU (Marvel Cinematic Universe), è tornato sulle bocche di tutti, ma contrariamente al 2016, quando i controversi Batman V Superman: Dawn of Justice e Suicide Squad sancirono la nascita del franchise spaccando nettamente a metà pubblico e critica, stavolta l’epica e cupa poetica di Snyder, distante anni luce dalle atmosfere più terrene e scanzonate della Marvel, sembra avere incontrato finalmente il favore degli spettatori, quegli spettatori che nel corso di questi ultimi quattro anni si sono confrontati con un DCEU sempre più interessato a seguire l’esempio della concorrenza, finendo così per rivalutare in parte il lavoro di Snyder, un regista non perfetto, ma con una visione chiara e ben precisa della direzione che il brand avrebbe dovuto intraprendere, cosa della quale si è sentita molto la mancanza.
Ma come si è arrivati alla situazione attuale? Com’è nato il DCEU? Quali erano i piani iniziali per la sua gestione? Cosa è cambiato lungo la strada e perché potrebbe cambiare ancora?
A queste e ad altre domande cercheremo di rispondere in questo articolo, nel quale ripercorreremo insieme la storia del franchise più controverso e travagliato della storia dei cinecomics, e, in attesa di un articolo più approfondito sulla Snydercut, farci un’idea sul suo futuro.
L’Uomo d’Acciaio. Fino all’ultimo zoom
Ogni brand, sia esso di successo o fallimentare, ha un primo capitolo, e nel caso del DCEU questo è L’Uomo d’Acciaio, il quale però non fu concepito con l’obiettivo di dare il via ad un universo cinematografico .
Il film del 2013 con protagonista Henry Cavill, e diretto da Zack Snyder (che sarà di fatto il vero protagonista di questa storia) si poneva infatti obiettivi molto più simili a quelli della trilogia del Cavaliere Oscuro, diretta da quel Christopher Nolan che figura anche tra i produttori, che a quelli dei Marvel Studios: così come la saga del regista britannico puntava a rilanciare il personaggio di Batman in un’ambientazione contemporanea e (nei limiti di un cinecomic) realistica, L’Uomo d’Acciaio cercava di rispondere alla domanda “e se esistesse un Superman nel nostro mondo?”.
Il risultato? Per molti un capolavoro epico che rilegge in maniera ideale per i nostri tempi il mito di Superman, per altri un disastro che tradisce alla radice l’anima del personaggio, ma sicuramente un film diverso da qualunque sua trasposizione realizzata fino ad allora: un film che sceglie di concentrarsi maggiormente sul retaggio alieno di Kal-El piuttosto che sul lato umano di Clark Kent (in particolare il rapporto con il padre adottivo Jonathan Kent, interpretato da Kevin Costner, fu tra gli aspetti più criticati della pellicola), un film in cui il primo contatto tra Superman e i terrestri si presenta più come un incontro ravvicinato che come l’arrivo in pompa magna di un eroe nazionale (cosa ulteriormente sottolineata dal punto di vista registico tramite l’abuso che Snyder fa dello zoom per richiamare ai video amatoriali di avvistamenti di UFO), un film che mette in risalto il ruolo di Superman di moderno e tormentato messia a discapito del classico dualismo tra il supereroe dal sorriso smagliante e l’insicuro uomo comune, un film che dalle ambientazioni ai design punta sulla spettacolarizzazione visiva come nessuna pellicola dedicata al personaggio prima di allora, ma soprattutto un film che non ha paura di mettere il più classico degli eroi in costume in situazioni che di classico hanno ben poco, come scene d’azione frenetiche e distruttive (specialmente per gli edifici di Metropolis) e scontri all’ultimo sangue.
Ma che siate tra chi ha santificato L’Uomo d’Acciaio o tra chi lo ha seppellito, Warner Bros., da major quale è, appartiene a una sola scuola di pensiero, quella dell’incasso, e il film di Snyder ebbe abbastanza successo commerciale da convincerla che non solo poteva esserci un seguito, ma anche che quella era la giusta occasione per intavolare un universo cinematografico targato DC che potesse fare concorrenza a quello dei Marvel Studios, freschi freschi del successo planetario di The Avengers.
Ed è qui che sono cominciati i problemi…
Batman V Superman: Dawn of Justice, nel nome della madre
Immaginate.
Siete a capo di una major cinematografica che detiene i diritti di sfruttamento di tutti i personaggi della DC comics, e decidete che è arrivato il momento di dare il via ad un universo cinematografico con protagonista la Justice League che sia in grado di competere con quella gallina dalle uova d’oro nelle mani di Topolino che è la saga degli Avengers.
Cosa fareste?
Se foste saggi e lungimiranti, la vostra scelta sarebbe di prendervi i vostri tempi, di dedicare un film stand alone a ciascun membro del vostro super team, in modo che questi possano svilupparsi adeguatamente, ritagliarsi un posto nell’immaginario del pubblico, per poi farli confluire in un evento crossover che sancisca la nascita del gruppo.
Quale fu la scelta di Warner Bros.?
Che domande…
Buttare letteralmente tutto quello che avevano in un solo film.
Ma andiamo con ordine.
Gli animi dei fan vanno in fibrillazione quando durante il comic con di San Diego del 2013 viene annunciato Batman V Superman: Dawn of Justice, film che sul groppone portava non solo il già difficile compito di fare da seguito a un film controverso come L’Uomo d’Acciaio, ma anche quello di introdurre un nuovo Batman (interpretato da quel Ben Affleck all’epoca tristemente noto ai fan dei cinecomics per il disastroso Daredevil da lui interpretato nel 2003) a soli quattro anni di distanza dalla tutt’ora indimenticata trilogia del Cavaliere Oscuro con protagonista Christian Bale, e di gettare le basi per i futuri film sulla Justice League.
E laddove L’Uomo d’Acciaio era stato controverso, Batman V Superman rappresentò un vero e proprio casus belli.
Pochi film possono vantare di essere stati altrettanto divisivi per il pubblico: sul web e non solo era impossibile trovare opinioni moderate sul film. O era il peggior cinecomic di sempre o era un capolavoro incompreso.
Ma come fu davvero Batman V Superman: Dawn of Justice?
Beh, se ogni film vive di pregi e difetti, il secondo film DC firmato Zack Snyder vive di pregi altissimi e difetti disastrosi.
Da efficaci citazioni ai fumetti che venivano smorzate da momenti in cui i personaggi adottavano comportamenti totalmente estranei alle loro controparti cartacee, a un Lex Luthor potenzialmente affascinante (e interpretato da un attore fenomenale come Jesse Eisenberg) che si perdeva tra tic nervosi e deliri imbarazzanti, da un racconto dai toni cupi e seri, che non aveva paura di allontanarsi dalle atmosfere da commedia della Marvel, sminuito da un montaggio confusionario e frammentato che lo rendeva quasi incomprensibile, a Wonder Woman, interpretata da una Gal Gadot perfettamente calata nella parte ma limitata da un minutaggio scarso e striminzito, passando per l’introduzione di ben cinque nuovi supereroi in un unico film senza che ci venga detto alcunchè sul loro background e il loro contesto (con l’eccezione di Batman), fino ad arrivare al conflitto sia fisico che ideologico che dà il titolo al lungometraggio, quello tra i due eroi dei fumetti più iconici di sempre.
Un conflitto costruito lentamente sin dall’inizio del film, tra la frustrazione di un Bruce Wayne vecchio e tormentato, che riversa le sue paranoie su un essere alieno e quindi inumano, divino e quindi incontrollabile, potente e quindi pericoloso, e l’idealismo di un Clark Kent che fatica a trovare il suo posto tra quei terrestri dal cui punto di vista lo vediamo per la maggior parte del tempo, un punto di vista dal quale può apparire come un angelo benevolo o come una spaventosa forza della natura, ma inevitabilmente distante, incomprensibile nella sua superiorità, un conflitto che sfocia in uno scontro fisico influenzato troppo dalle serrate macchinazioni di Lex Luthor, e troppo poco dalle loro ideologie opposte, fino alla conclusione che tutti conosciamo anche per via dell’incalcolabile numero di parodie e meme che ha generato: la famigerata “scena di Martha”.
Apriamo una parentesi in merito. Parlare della “scena di Martha” è un po’ come correre in mezzo a un gruppo di estremisti vegani brandendo un salame piccante: è rischioso… Ma per onestà intellettuale cerchiamo di liberarci dai preconcetti, di dimenticare l’involontaria comicità della scena e di analizzarla lucidamente.
Se pensate davvero che l’intenzione di Snyder fosse di mettere un scena un Batman che dopo aver passato due anni ad odiare Superman, gli offre la sua amicizia semplicemente per un bizzarro caso di omonimia siete fuori strada: Batman non risparmia Superman perché le madri di entrambi si chiamano Martha, Bruce Wayne risparmia Clark Kent perché per la prima volta riesce ad andare oltre l’alieno e a vederlo come un umano con i suoi affetti e le sue debolezze, perché in lui rivede sé stesso quando era solo un bambino spaventato nei bassifondi che guardava impotente un mostro senza nome portargli via per sempre sua madre e suo padre, perché dopo decenni passati a struggersi per la perdita dei genitori ha l’occasione di fare in modo che ciò che ha subito non capiti a qualcun altro. Fatto questo bel discorsetto però, con tutte le buone intenzioni e l’educazione, la scena resta comunque estremamente illogica: anche dando per buona l’idea che Superman non possa effettivamente individuare con precisione sua madre, e che gli serva davvero l’aiuto di Batman per salvarla da Luthor (e non lo farò), ci saranno stati almeno cinquanta momenti in cui avrebbe potuto chiarire la situazione al Cavaliere Oscuro, momenti che però preferisce passare facendo vedere al suo avversario quanto è forte o inalando kryptonite.
10 per il tentativo, 5 per l’esecuzione.
Mentre Snyder non perse tempo a dare la colpa per i difetti del film al taglio di ben mezz’ora di minutaggio imposto da Warner Bros., promettendo che i fan avrebbero avuto l’occasione di vedere il “vero film” sotto forma di edizione estesa in home video (quella famosa “Ultimate Edition” grazie alla quale il film fu in parte rivalutato), la major si convinceva sempre di più che proporre cinecomics cupi e introspettivi per differenziarsi rispetto alla Marvel non fosse la scelta migliore, e le conseguenze di tali dubbi non avrebbero tardato a manifestarsi.
Suicide Squad: ride bene chi ride di Jared Leto
Ma allontaniamoci per un po’ dalla primadonna Snyder, e concentriamoci sulle sofferte vicissitudini artistiche del film forse più penalizzato dalle scelte di Warner Bros.: Suicide Squad.
Il film di David Ayer era gravato da responsabilità troppo grandi per lui già dai tempi del primo trailer: all’onore di essere il primo cinecomic in assoluto con protagonisti dei supercattivi, e all’onere di reintrodurre il personaggio del Joker, la cui ultima iterazione cinematografica era stata l’amatissima versione de Il Cavaliere Oscuro, interpretata dal compianto Heath Ledger, si aggiunse il compito di redimere il DCEU agli occhi del pubblico e della critica, che avevano accolto malamente Batman V Superman… e la storia ci insegna che Suicide Squad fallì clamorosamente in tutti gli obiettivi che si era posto.
David Ayer condivideva infatti la visione cupa e introspettiva di Snyder, e a quanto ci è dato sapere, quel che aveva inizialmente confezionato era un film crudo e cinico, coerente sia con i suoi precedenti lavori da regista e sceneggiatore, che con i suoi perfidi protagonisti, ma la paura della Warner di incorrere in un nuovo fallimento la spinse ad imporre ad Ayer di effettuare delle pesanti modifiche a metà strada volte ad alleggerire il film per renderlo più appetibile agli occhi del pubblico, e alle quali il regista non avrebbe perso tempo a dare la colpa della mancata riuscita del film (forse nel vano tentativo di far dimenticare alla gente quell’imbarazzante “F**k Marvel” da lui urlato al microfono durante l’anteprima stampa): il risultato è un film che non è né carne né pesce, una paccottiglia scritta male e montata peggio che cerca di essere un cinecomic, un film d’azione, un horror, un fantasy, una commedia romantica e altri miliardi di cose senza che gliene riesca mezza, il tutto condito da una colonna sonora composta da ottimi brani piazzati però nella pellicola senza il minimo criterio logico, combattimenti anonimi ed effetti speciali aberranti.
Ma si sa, le aspettative su questo film non riguardavano tanto la trama quanto i personaggi, e un cast di star d’eccezione che andavano da Will Smith a Viola Davis faceva ben sperare, ma anche da questo punto di vista si andò incontro a una cocente delusione. Nonostante alcune ottime performance (in particolare quella di Jay Hernandez e di Margot Robbie) questo film è popolato da personaggi dalla caratterizzazione debole ed incoerente, che al pubblico vengono presentati in maniera frettolosa e superficiale, e, in alcuni casi, senza che venga spiegata la natura dei loro poteri, la cui effettiva portata è a sua volta indefinita e intercambiabile a seconda della direzione che deve prendere la storia.
E in tutto questo… il Joker di Jared Leto.
Ora, commentare il Joker di Leto è, se possibile, ancora più pericoloso che commentare la “scena di Martha”, anche perché ciò che ci è pervenuto di questa interpretazione è solo una piccola frazione del materiale girato dall’attore, perciò qualunque cosa dirò sarà strettamente relativa alla caratterizzazione del personaggio che emerge da questo film.
Ciò che da sempre caratterizza e rende affascinante il personaggio del Joker è la sua mente malata, il suo spirito anarchico e la sua concezione della vita e della società, che ai suoi occhi appare così illogica, insensata, crudele ed ipocrita da portarlo a scegliere di uscirne e di isolarsene completamente, ma al tempo stesso di incarnarne la malvagità e la follia accompagnandole con crudele e sadica ironia, e in questo sta il principale problema del Joker di Leto: ciò che emerge dal montaggio di questo film non è una maschera tragicomica che incarna le contraddizioni della società per sbattergliele in faccia nel modo più truculento e plateale possibile, bensì un comune boss malavitoso come ce ne sono già tanti a Gotham City un tamarro senza arte né parte che ostenta lusso e ricchezza, e che sembra dare valore a cose come il denaro, il potere e addirittura un altro essere umano al quale sembra sentimentalmente legato, e sorvolando sulla rappresentazione della relazione tra lui e Harley Quinn per evitare di degenerare in facili insulti senza sostanza, limitiamoci a dire che l’interpretazione a tratti fin troppo sopra le righe di Jared Leto e il suo look più da Achille Lauro che da supercattivo non aiutano.
E mentre aspettiamo l’Ayer’s cut che probabilmente non arriverà mai, proseguiamo con la nostra storia, e concentriamoci su come il DCEU andò incontro ad una momentanea vittoria solo per poi fallire di nuovo.
Wonder Woman e Justice League. Il cattivo sono i baffi
Forse furono proprio i fiaschi fino ad allora collezionati dal DCEU a favorire il successo di Wonder Woman: l’abbassamento delle aspettative, l’apprezzamento riscosso dalla Diana Prince interpretata da Gal Gadot in Batman V Superman, e il fattore della novità del primo cinecomic con protagonista una supereroina (volendo ignorare tentativi precedenti falliti come Supergirl, Catwoman o Elektra), portarono il pubblico a trovare nel film sull’amazzone diretto da Patty Jenkins una piacevolissima scoperta.
La performance di Gal Gadot in perfetto equilibrio tra l’impeto di una guerriera implacabile e l’idealismo di un’eroina pacifista, la costruzione genuina e coinvolgente del rapporto tra Diana e il pilota Steve Trevor,interpretato da Chris Pine, un umorismo ben misurato, scene d’azione spettacolari e soprattutto una rappresentazione cruda del dolore e della sofferenza che le guerre sempre provocano (aspetto nel quale risulta superiore ad un altro cinecomic ambientato in tempo di guerra, ossia Captain America: il Primo Vendicatore) che ci permette di percepire costantemente la presenza dell’antagonista Ares, rendono l’esperienza della visione di Wonder Woman completa e soddisfacente, e sebbene anche qui non manchino alcune pecche, come i vistosi e folti mustacchi sfoggiati dalla manifestazione umana del dio della guerra (interpretato da un David Thewlis che cerca di fare il meglio che può con ciò che ha a disposizione, ossia molto poco), una battaglia finale fin troppo classica condita da dialoghi banali, e un finale fin troppo “tarallucci e vino”, sembrò che il DCEU avesse appena portato a casa la sua prima, vera vittoria e che da lì in poi la strada sarebbe stata in discesa… Quanto ci sbagliavamo.
È il maggio del 2017 quando viene diffusa una di quelle notizie che nessuno vorrebbe leggere: Zack Snyder abbandona Justice League dopo il suicidio della figlia adottiva Autumn.
Dopo due mesi passati tenendo segreta la disgrazia e tentando di tenersi impegnato con il lavoro, il regista decise di abbandonare il film lasciando il suo posto a Joss Whedon, già noto ai fan dei cinecomics per aver firmato la regia dei primi due film sugli Avengers.
Nonostante le riprese principali del film fossero state già state effettuate e mancasse relativamente poco al completamento della post produzione, Warner decise di apportare all’opera di Snyder dei drastici cambiamenti per renderla più coerente con la nuova direzione da loro intrapresa più simile a quella dei Marvel Studios, in particolare alle sue atmosfere, alle fasi finali del film e a diverse sottotrame.
Senza dilungarci troppo in vista di un articolo più approfondito sulla Snydercut, e tralasciando le facilissime battute sui baffi rimossi digitalmente dalla faccia di Henry Cavill, limitiamoci a dire che tagliare via e riscrivere interi pezzi di trama, inserire umorismo fuori contesto, ricolorare in maniera improbabile la fotografia del film, e rifare effetti speciali e design, il tutto a pochi mesi dall’uscita in sala senza nemmeno rimandarla per avere più tempo per perfezionare il risultato finale ebbe ripercussioni tutt’altro che felici sulla riuscita del film, il cui fallimento (stavolta anche commerciale), sebbene non avesse compromesso definitivamente il DCEU, segnò la fine dei tentativi di dargli coesione e coralità.
Da Aquaman a Wonder Woman 1984: le vittorie di Pirro
Da qui in poi, riassumere la storia del DCEU diventa maledettamente facile, visto che si riduce ad un ciclo di eventi che si ripetono costantemente: la DC sforna un nuovo film, questo viene accolto sostanzialmente bene da critica e pubblico, recimola una buona somma al botteghino, ma ciò non basta a dare un input che definisca la direzione dell’universo cinematografico, che prosegue incespicando nel suo percorso fatto di stand alone sconnessi e senza pretese.
Così è stato per Aquaman, film d’azione senza pretese che punta più sulle gag, sulla spettacolarizzazione visiva e sulla presenza fisica di Jason Momoa che su personaggi stratificati o su una sceneggiatura impeccabile, per Shazam!, forse l’unica vera commedia del DCEU i cui elementi fantasy, il cui sviluppo intelligentemente comico dei personaggi e la cui analisi del tema della famiglia lo rende forse il più riuscito del franchise, per Birds of Prey, che ci presenta sotto una luce diversa il personaggio di Harley Quinn riprendendo la struttura narrativa tipica dei film di Deadpool, e per Wonder Woman 1984, film disastroso sotto ogni punto di vista, ma che porta a casa un immeritato successo dovuto esclusivamente alla mancanza di alternative cinematografiche in tempo di pandemia.
Ma che siano stati successi o fallimenti, ad accomunare i prodotti del DCEU dopo Justice League, è stato il non avere sostanzialmente nulla in comune: tra riferimenti ad altri film del franchise ridotti al minimo, eterogeneità stilistica, totale assenza di crossover in vista e l’annuncio di progetti distaccati da questa continuity come il Joker di Joaquin Phoenix o il Batman di Robert Pattinson, molti sono arrivati a chiedersi se sia ancora legittimo parlare di DCEU.
E laddove il DC Fandome e la Snydercut avrebbero dovuto smuovere qualcosa, hanno portato solo più incertezza: il futuro del DCEU è ormai un campo di battaglia tra i fan di Snyder, che intasano le sezioni commenti di ogni post sui social con l’hashtag #RestoreTheSnyderverse, e la Warner Bros., che non appare più interessata ai potenziali sviluppi della visione del regista di Watchmen e 300, ma se questa storia ci ha insegnato qualcosa è che nel cinema niente è definitivo, specialmente al giorno d’oggi, nel quale tramite il web gli spettatori possono far sentire la propria voce come mai prima d’ora nella storia di questo media, e solo con il tempo conosceremo la conclusione di questa storia, quasi certamente imprevedibile.