Una legge piccola piccola

E così, nel marzo scorso e dopo un travagliato itinerario, la legge sull’«omicidio stradale» è arrivata in porto. Il clamore si è spento, timidamente solo qualche notizia sui giornali la nomina per indicare il nuovo capo di imputazione in dolorosi fatti di cronaca. È un momento buono per chiedersi se bisogna esserne soddisfatti. Ma temo che la risposta sia negativa, per vari motivi.
Ci si potrebbe per esempio chiedere se non sia anomalo che per reati colposi vengano per la prima volta previste pene che oggettivamente distruggono un’altra vita. Ci si potrebbe chiedere se, anziché continuare ad inasprire le pene, non si debba prendere atto di ciò che dice qualsiasi studio e anche una psicologia spicciola: non è mai l’entità della pena a spaventare, ma la sua certezza (un mese certo di galera è deterrente molto più di dieci anni possibili). Ci si potrebbe chiedere se sia giusto che l’agenda politica venga dettata non dalle reali emergenze, ma dall’eco che episodi isolati hanno sui mezzi di comunicazione di massa (le morti sulla strada sono in aumento? falso, sono in diminuzione, lo dicono tutte le statistiche). Ci si potrebbe chiedere se forze e impegno non possano essere meglio adoperati in altri campi, magari proprio in altri «omicidi colposi» (si fa per esempio abbastanza per i tanti giovani che si tolgono la vita? fatta salva la libertà di ogni essere umano, non c’è nulla da rimproverarsi per non aver fatto abbastanza per offrire loro lavoro, la possibilità di avere una famiglia, un quartiere non squallido, un ambiente minimamente sano, una scuola non grigia e depressa ma in grado di trasmettere entusiasmo e voglia di futuro?). Ci si potrebbero chiedere tante cose insomma. Ce ne sono un paio però che mi preoccupano di più.
La prima è che qualsiasi legge che stabilisca pene in forma di detenzione sfiora uno dei problemi civili più grandi dell’Italia. La situazione delle carceri italiane è spesso disastrosa. È facile fare ironia sui paesi in cui le carceri paiono alberghi a quattro stelle, ma ciò non toglie che esse non possano essere luoghi di implicita, inevitabile tortura. Il numero dei suicidi tra i detenuti e anche (molto meno pubblicizzato) tra le guardie carcerarie sta lì a ricordarcelo. La Costituzione italiana («la più bella del mondo», si dice) stabilisce che la pena deve avere lo scopo della rieducazione del condannato: eppure si sa benissimo che non avviene così, e che anche gli strumenti che potrebbero, dovrebbero favorire questa finalità sono drammaticamente sottodimensionati. Basta ascoltare le testimonianze di chi nelle carceri lavora, o anche solo dedica parte del proprio impegno. È evidente del resto che quando si inaspriscono le pene non si sta affatto pensando che il colpevole di un reato abbia bisogno di più tempo per essere rieducato: ma anche ammesso che ci si rassegni alla sola funzione deterrente, una pena dalla quale il più delle volte si esce peggiori di prima è un fallimento, con un costo sociale altissimo. Certo, non si può realisticamente fermare il sistema giudiziario in attesa del difficile chiarimento del doloroso e paradossale senso della pena, o almeno di un impegno di adeguamento a livelli minimi di umanità: ma non si può neppure andare avanti come se nulla fosse, attendendo con indifferenza l’ennesima condanna dell’Italia nelle sedi internazionali e dando per ovvio che chi esce di prigione commetterà reati come e più di prima. Una politica con un minimo di nobiltà dovrebbe porsi anche questi problemi, e subito.
Ma sullo sfondo c’è qualcosa che mi preoccupa ancor di più. Il primo ministro annunciò l’approvazione della legge con un tweet in cui la dedicava alle famiglie dei morti sulla strada. È umano e comprensibile che chi ha visto un proprio caro ucciso stupidamente, per una somma di leggerezza e arroganza, possa sentirsi sollevato dal fatto che lo Stato prenda più sul serio questi reati. È normale e giusto che sia anzitutto lui a chiedere giustizia. Ma non è affatto normale e giusto che una legge che inasprisce le pene venga dedicata a lui. Se il sistema penale ha una funzione, essa è quella di sottrarre nell’esercizio della giustizia qualsiasi ruolo al cittadino offeso, anche perché questa sarebbe una «giustizia» che inevitabilmente sfocia nella catena infinita delle vendette e nella barbarie, come avviene con il «borghese piccolo piccolo» di Monicelli. È per questo che non ci piacciono i sistemi giudiziari in cui alla fine è ai parenti della vittima che si chiede: che facciamo, lo impicchiamo o no? Ed è per questo che sono così tristi, inopportune, incivili le assillanti interviste ai parenti delle vittime all’indomani di un processo, di una sentenza, di una scarcerazione del colpevole: il loro irrimediabile dolore è una cosa serissima, e proprio perché è cosa seria non merita di diventare un trafiletto demagogico in un telegiornale o in una rivista. Auguriamoci allora che quello del nostro primo ministro sia stato un infelicissimo lapsus, e che si mantenga l’idea di una giustizia esercitata esclusivamente per il bene comune, e dunque dedicata a tutti.