We don’t need no education
Qualche tempo fa, un articolo pubblicato su un importante quotidiano italiano attirò la mia attenzione. Lo spunto di cronaca era costituito da uno dei numerosi episodi di leggerezza adolescenziale: filmati sconvenienti fatte circolare sulla rete. Secondo l’articolista questo e simili fatti dimostravano l’assoluta necessità d’introdurre una nuova materia d’insegnamento, fin dalle scuole elementari: l’«Educazione alle relazioni digitali». Chi si opponesse, replicando per esempio che il problema è quello di un’educazione più profonda ai rapporti umani reali, sarebbe soltanto uno stupido e pericoloso retrogrado. Questo ragionamento m’irritò: sia perché mi vedevo collocato tra gli stupidi, sia perché provai ad immaginare i contenuti di questa materia e mi parvero come minimo ridicoli («Unità didattica 5: Perché è sconsigliabile mettere in rete le foto della tua amichetta ignuda»). Come spesso (e fortunatamente) accade, la proposta cadde nel nulla: ci manca solo che ogni fatto di cronaca, quantunque grave, sia il motivo sufficiente per introdurre una nuova materia a scuola. E che cosa servirebbe poi per evitare gli incidenti del sabato sera, l’«Educazione alcolica»?
La questione però, esaminata a mente fredda, si presta a qualche considerazione meno ovvia. Non si tratta infatti solo di resistere alla tentazione di rincorrere l’attualità. Non si tratta neppure di pensare (giustamente) che una formazione umana profonda è quella meglio attrezzata per affrontare i mille problemi che nascono da nuove contingenze sociali e tecniche, senza bisogno di entrare nei loro caratteri specifici. Infine, non si tratta neppure di far notare che, come non si mette in mano ad un ragazzino una bottiglia di grappa (per un negoziante è un reato), non si capisce perché di fronte ad altre cose, il cui controllo richiede capacità critiche tutt’altro che banali, bisogna fare spallucce e dire: «Certe cose mica si possono proibire…». Tutte queste sono cose vere, ma nella proposta di quell’articolo c’era un altro presupposto, meno evidente, che va esaminato criticamente.
Il presupposto è che la scuola debba consistere in una collezione di «educazioni». La mia generazione è stata quella che ha assistito all’ingresso nella scuola di materie chiamate appunto «educazione». Mio fratello (di pochi anni più grande di me) aveva tra le sue materie «Applicazioni tecniche». Quando arrivai io, si chiamava «Educazione tecnica». Lui aveva «Ginnastica», io ebbi «Educazione fisica». Da quel che ricordo, il cambio di dizione nella pratica non cambiò un granché: forse al massimo nella mia «Educazione tecnica» studiavo un poco più di teoria (cosa che mi piaceva), ma la differenza era per il resto poca. E tuttavia la parola nuova introduceva una sfumatura importante: lo scopo della materia non era tanto che lo studente sapesse (o sapesse fare), quanto che egli interiorizzasse atteggiamenti nei riguardi della realtà. Un bel passo avanti?
Ad uno sguardo più attento le cose non sono così semplici. Siamo davvero sicuri che la scuola debba determinare atteggiamenti nei confronti della realtà? e chi decide quali siano quelli buoni? o perlomeno, esiste un luogo in cui si possa discutere pubblicamente e democraticamente su quali siano le scelte di vita da incoraggiare, e su quali la scuola (almeno quella pubblica) debba invece astenersi? La vecchia scuola (chiamiamola così) in fondo seguiva un criterio abbastanza semplice: esiste un’unica valutazione sul tuo comportamento, ed è il voto di «Condotta»: essa riguarda l’adempimento dei «doveri di stato» (se sei uno «studente» devi studiare, diamine!), il rispetto nei confronti dei compagni, degli insegnanti, del luogo in cui ci si trova. Per tutto il resto, si tratta solo di cose da sapere, o saper fare: puoi pensare tutto il male che vuoi dell’Italia, ma devi conoscerne la storia, puoi pensare che l’italiano è una brutta lingua, ma devi conoscerne a perfezione la grammatica, puoi pensare che la matematica è una pseudoscienza (così riteneva il filosofo Benedetto Croce), ma devi sapere come funziona, far calcoli e risolvere problemi senza errori, puoi pensare che l’amore è un inganno ormonale (così Arthur Schopenhauer), ma devi conoscere le grandi storie d’amore della letteratura, puoi essere un fervente credente, ma devi conoscere bene il pessimismo di Leopardi e l’anticlericalismo di Carducci. Viva la cultura, e viva la libertà di pensiero!
Una scuola fatta di «educazioni» inverte le sottolineature. Proviamo a leggere al contrario le frasi di prima, e i problemi diventano evidenti ed enormi. Anche chi parla di «Educazione alle relazioni digitali» ridicolizzando chi rivendica il primato delle relazioni umane reali mostra di avere idee sulle quali è ben possibile dissentire, ma che ritiene debbano diventare oggetto di «educazione». E dov’è la libertà di pensarla diversamente? Preoccupazioni esagerate le nostre, qualcuno dirà. Non proprio: nel febbraio scorso è stato pubblicato il modello di Scheda di certificazione delle competenze per la scuola primaria e secondaria di primo ciclo (fino ai tredici anni, insomma). In parole povere, si tratta di una pagella addizionale che deve accompagnare d’ora in poi quella usuale (e prima o poi sostituirla? questo non si capisce). I problemi sono molti, ma qui vogliamo notare solo questo: su dodici competenze individuate, sei riguardano il comportamento e gli atteggiamenti, perfino interiori, dello studente. Curioso, vero? Tanti anni di guerra al voto di condotta, considerato simbolo di autoritarismo, per ritrovarsi alla fine sei voti di condotta su dodici. Che gli aspetti individuati siano condivisibili o meno (e in gran parte lì lo sono) importa poco: il problema è se il compito della scuola è questo, o se così non si apra la strada ad un’istruzione in cui è secondario che si diano strumenti (il che vuol dire: conoscenze) per criticare le idee vigenti ed elaborarne di nuove, e diventa importante solo assegnare qualifiche morali agli studenti sulla base delle idee di volta in volta contenute nei decreti ministeriali. Di fronte a tutto questo, preferisco unirmi al coro di Another Brick in the Wall, Part 2: «We don’t need no education, we don’t need no thought control».