Povertà in aumento: Istat, quasi il 50% delle famiglie meridionali a rischio emarginazione sociale
Pil, deficit e debito pubblico, andamento della borsa, valore spread: ecco le coordinate del mercato economico europeo e mondiale. Ma fuori dall’astrattezza matematica dei numeri questo cosa significa? Fuori dalla logica delle sigle economiche, in quanti miliardi di sacrifici si frantuma la vita delle famiglie italiane?
Martedì 6 dicembre, è l’Istat a farcelo sapere, prendendo a campione l’anno 2015: la stima delle persone a rischio povertà e a esclusione sociale è salità al 28,7%, rispetto al 28,3% del 2014. In termini di povertà assoluta, ciò coivolge il 6,1% delle famiglie residenti in Italia (un italiano su quattro). Nei termini della Strategia Europea 2020, a popolare questa percentuale sono persone a rischio povertà, grave depressione materiale e bassa intensità di lavoro.
Se la pressione fiscale, nel 2016, ha raggiunto il 42,3%, scendendo di 0,4 punti percentuali rispetto a ottobre 2015, la propensione al risparmio delle famiglie è aumentata di 0,9 punti percentuali, arrivando al 9,6%. Diminuisce la quota di famiglie che dichiarano di non poter permettersi una settimana di vacanza lontano da casa (da 49,5% a 47,3%), di non riuscire a fare un pasto adeguato (cioè con proteine della carne o pesce o equivalente vegetariano) almeno ogni due giorni (da 12,6% a 11,8%) e di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione (da 18% a 17%). Aumenta, però, la quota di famiglie che dichiarano di non poter sostenere una spesa imprevista di 800 euro (da 38,8% a 39,9%) e di avere avuto arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti (da 14,3% a 14,9%).
L’occupazione è in lieve calo, nel III trimestre 2016, infatti, scende dello 0,1%, che corrisponde alla perdita di 30.000 persone occupate lavorativamente: il tasso della disoccupazione (dati ottobre 2016) oscilla intorno al 11,6%.
Il Mezzogiorno rimane l’area a più alto rischio povertà e disoccupazione: il 46,4%, rispetto al 2014, che contava il 45,6%. Purtroppo il dato tende a peggiorare, coinvolgendo il 50% della popolazione meridionale. La quota aumenta anche al Centro, passando da 22,1% al 24%, ma riguarda meno di un quarto della popolazione, invece al Nord si registra un calo della povertà: da 17,9% al 17,4%. Peggioramenti significativi si rilevano in Puglia (+7,5%), Umbria (+6,6%), nella provincia autonoma di Bolzano (+4%), nelle Marche (+3,4%) e nel Lazio (+2,3%), mentre l’indicatore migliora per Campania e Molise.
Le persone che vivono in famiglie composte da cinque o più componenti, quindi le famiglie più numeorse, sono le più colpite e afflitte dalla povertà: il 48,3% delle famiglie nel 2016, che però nel 2014 toccavano il 40,2%.
La stima del reddito netto medio annuo della famiglie rimane sostanzialmente stabile dal 2014: 29.472 euro (circa 2.456 euro al mese). La metà delle famiglie residenti in Italia percepisce un reddito netto non superiore a 24.190 euro l’anno (circa 2.016 euro al mese), sostanzialmente stabile rispetto al 2013; nel Mezzogiorno scende a 20.000 euro (circa 1.667 euro mensili). Per le famiglie che vivono prevalentemente di pensione o trasferimenti pubblici la somma scende a 19.487 euro.
Il reddito cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando, così, la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere. Il divario fra le famiglie più ricche e quelle povere è tra i più elevati in tutta Europa: nella graduatoria dei Paesi dell’Unione Europea, l’Italia occupa la sedicesima posizione insieme al Regno Unito.
Povertà e Referendum di Riforma Costituzionale
Si sta molto discutendo in questi giorni circa l’obiettività e la consapevolezza con cui gli italiani hanno votato lo scorso 4 dicembre. Il problema nasce soprattutto da due motivi:
1. la personalizzazione della campagna elettorale promossa dall’ex premier Matteo Renzi;
2. una enorme percentuale della popolazione non riteneva e non ritiene urgente una Riforma Costituzionale, a fronte delle preoccupanti carenze economiche e sociali attuali: dalla povertà alla disoccuazione, passando per l’inadempienza della sanità e dell’istruzione.
Mi soffermerò sul secondo dato: una piccola percetuale della popolazione votante, intorno al 20%, riteneva necessaria, in questo momento storico, la riforma della Costituzione. La parte retante indica come iniziative urgenti l’aumento dell’occupazione, soprattutto giovanile, e il miglioramento di alcuni settori pubblici, quali la sanità e l’istituzione scolastica, la riduzione della pressione fiscale.
Quindi non può essere un caso che le regioni meridionali, le più colpite da difficoltà economiche, abbiano registrato le quote di elettori più alte d’Italia, ovviamente insieme a molte altre regioni del Nord e del Centro, quali ad esempio Veneto, Emilia-Romagna e Umbria: in Basilicata ha votato il 62,85% dei votanti, in Abruzzo il 68%, Puglia 61,71%, in Sardegna il 62,45%. Dalla Basilicata alla Campania, dalla Calabria alla Puglia, dalla Sicilia alla Sardegna ha vinto il no con dei punti percentuali che variano dal 65 al 72, e sono proprio queste le regioni che versano nelle peggiori condizioni, rispetto alle altre parti del territorio nazionale.
Non è da escludere l’eventualità che accanto ad un rifiuto della Riforma Costituzionale, sia emerso un rifiuto dell’amministrazione governativa e delle rispettive manovre economiche. Molti cittadini hanno inteso come eccessiva l’intensità e la sperpero di denaro pubblico per una propoganda referendaria, che a prescindere dall’esito non avrebbe contribuito, almeno in una prospettiva di breve raggio, al miglioramento delle condizioni di povertà, e al superamento delle stesse.