Prescrizione: il governo Draghi alla prova per fermare strumentalizzazioni

In questi giorni molti giuristi e addetti ai lavori hanno preso parte al dibattito politico, auspicando che il governo Draghi – con il nuovo ministro della giustizia Marta Cartabia – abbia la determinazione di intervenire non solo sulla giustizia civile, ma soprattutto sui tempi del processo penale.
Nel mirino c’è ancora la riforma dell’ex ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, contestata per avere previsto il blocco della prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio, anche in caso di assoluzione, con la conseguenza che i reati non potranno più prescriversi nei giudizi d’appello o per cassazione.
La prescrizione è istituto di civiltà giuridica
Come più volte ribadito da autorevoli voci del settore, nel processo penale, dove sono in gioco diritti fondamentali della persona, come la libertà, la prescrizione resta un istituto di civiltà giuridica e trova il suo fondamento in esigenze di certezza del diritto. Lo Stato, quindi, rinuncia alla sua potestà punitiva per eventi troppo lontani nel tempo, non potendo pretendere di tenere una persona “sotto giudizio” a vita, poiché, già di per sé, si tratterebbe di una pena. Ciò anche per garantire il diritto di difesa, nella consapevolezza che con il trascorrere del tempo è più difficoltoso rintracciare ed assumere validi elementi probatori.
In questi anni, attorno alla prescrizione si è determinato un aggressivo dibattito sulla necessità di abolirla – tra slogan e notizie non veritiere – per giustificare la bontà della riforma Bonafede. A questo fine, la prescrizione è stata rappresentata all’opinione pubblica, come un mero escamotage giuridico che, con la complicità degli avvocati difensori, consente a persone colpevoli di restare impunite. Nonostante sia un istituto fondamentale di uno Stato di diritto.
Posizioni assunte sulla prescrizione
La maggior parte dei giuristi si è fermamente scagliata contro il blocco della prescrizione, che per di più si è risolto in un intervento normativo isolato, che, al contrario, doveva quantomeno essere preceduto da una riforma del processo penale per garantirne la ragionevole durata nel rispetto dell’art. 111 della Costituzione.
Tra coloro che si sono espressi contro la prescrizione dei reati e hanno, di fatto, difeso la riforma Bonafede – che restano figure piuttosto isolate nelle loro posizioni – si è distinto il magistrato Piercamillo Davigo, ex membro togato del CSM, che è arrivato a sostenere che questo istituto andrebbe addirittura abolito.
Il magistrato è stato da più parti criticato, per le sue tesi, giudicate spesso prive di merito e caratterizzate da uno sfrontato giustizialismo.
Il caso “Taricco”
Anche recentemente Davigo si è reso protagonista di un ambiguo intervento, attraverso il quale, ripercorrendo il cosiddetto “caso Taricco” che ha interessato la Corte di Giustizia UE a partire da una sentenza del 2015, è arrivato ad affermare che anche l’Unione Europea non approva la prescrizione per come concepita in Italia e che “un ritorno puro e semplice al precedente sistema della prescrizione invocato da alcune forze politiche anche in occasione della recente crisi di governo porterebbe ad una procedura di infrazione contro l’Italia”.
Ma questa estrema conclusione di Davigo, non sembra trovare corrispondenza nell’evoluzione del “caso Taricco”.
Infatti, in questa nota vicenda in materia di frodi Iva, solo inizialmente, la Corte di Giustizia aveva stabilito la necessità che l’Italia disapplicasse quelle regole sulla prescrizione che, nello specifico caso, impedivano di tutelare adeguatamente gli interessi finanziari dell’Unione europea, perché comportavano una mancata impunità di chi evade un’imposta che finanzia il bilancio italiano e il bilancio dell’UE (seppure in misura più ridotta).
Tuttavia, successivamente, la Corte di Giustizia è tornata ad esprimersi per sconfessare la posizione precedentemente assunta e riaffermare l’esigenza di salvaguardare e rispettare l’integrità dei principi dell’ordinamento costituzionale dell’Italia.
Non si comprende, quindi, come il magistrato Davigo possa pervenire alla conclusione che l’Italia con il ritorno alla prescrizione ante riforma Bonafede possa rischiare una procedura di infrazione, tra l’altro, facendo riferimento ad un caso di reati fiscali, dove l’interesse dell’UE non va oltre la necessità che l’Italia si adoperi per adottare un sistema sanzionatorio che assicuri una riscossione efficace dell’Iva.
Su questo caso, abbiamo anche intervistato il professore di diritto costituzionale e pubblico comparato, Salvatore Curreri presso l’Università degli Studi di Enna Kore, che testualmente ci riferisce:
“Mi pare che Davigo racconti strumentalmente solo una parte della c.d. saga Taricco, dimenticandosi delle pronunce successive alla c.d. Taricco II del 5 dicembre 2017, e cioè della sentenza della Corte costituzionale n. 115/2018 con cui, azionando i c.d. contro-limiti, i nostri giudici costituzionali hanno tenuto fermo il rispetto della disciplina sui termini di prescrizione, di natura sostanzialmente penale e non processuale, in nome dei principi di legalità, prevedibilità, tassatività e irretroattività della norma penale sfavorevole, anche quando la conseguente tutela dei diritti del contribuente impedisca la repressione penale delle frodi fiscali ai danni dell’UE. Principi che la stessa Corte di Giustizia non ha potuto non ribadire nella definitiva sentenza del 17 gennaio 2019 (C-310/16). Come queste conclusioni del nostro giudice costituzionale e di quello di Lussemburgo ed i principi che le hanno ispirate possano indurre a ritenere legittima la normativa vigente, che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, condannando l’imputato a subire sine die il processo che è di per sé una pena, mi pare tesi giuridicamente molto azzardata.”
Su queste considerazioni, sembra ormai non più rinviabile un intervento normativo che ripari alle conseguenze dell’attuale blocco della prescrizione e chiuda, definitivamente, una diatriba che è andata oltre una sana dialettica sul merito di rilevanti questioni giuridiche. Il sistema giustizia italiano richiede, prioritariamente, adeguate iniziative per ridurre i tempi dei procedimenti, è questo che davvero ci chiede anche l’Unione europea.