Suicidi in carcere: morire dietro i cancelli dell’oblio
Il 2018 ha registrato un’importante aumento dei suicidi in carcere. Morire suicidi all’interno di una struttura penitenziaria significa morire nell’isolamento, nell’oblio degli affetti, nell’oblio di una vita che è stata e che non è più. Nell’oblio di se stessi.
Lontani dalla vita sociale esterna, inseriti nella socialità ripetitiva e monotona della quotidianità carceraria, i detenuti dimenticano una parte di se stessi, spesso il potenziale di se stessi. È una tendenza automatica, quasi fisiologica. È un istinto di difesa contro l’aridità dell’anima, ma ognuno lo fa a modo suo, scegliendo di far cadere nell’oblio una parte di sé.
Chi lo fa vivendo di leggerezza, spezzando i pensieri negativi e logoranti che toglierebbero il respiro; chi fa della detenzione un motivo di riscatto e un momento di emancipazione. Chi si crogiola nel vezzo criminale dell’ambiente carcerario e chi infine soccombe all’angustia della vita monca a cui è costretto.
Nel 2018 si sono suicidate 67 persone, stando ai dati raccolti da Ristretti Orizzonti, che si occupa anche di registrare i dati anagrafici dei detenuti che muoiono in carcere. Si è superato così il numero del 2011, quando morirono 66 persone suicidandosi. Il 2017 registrava 53 suicidi, il 2016 45 e il 2015 43. Nel 2018 “ogni 900 detenuti presenti, uno ha deciso di togliersi la vita, venti volte di più che nella vita libera”.
“Venti volte di più che nella vita libera”
Questo è il nodo della questione. La verità che tradisce l’inciviltà di un sistema penitenziario che dimentica la persona, privandola della sua normalità. È di fronte a questa sproporzione che si deve ripensare l’organizzazione e la condotta della quotidianità intramuraria dei reclusi.
L’Associazione Antigone ha proposto una serie di provvedimenti atti a riformare le modalità dell’esecuzione penale, cercando di intervenire nei punti più critici della detenzione. Non a caso, l’affettività (l’intervista a un ex detenuto che racconta la privazione dell’affettività in carcere) è il primo ambito che necessita di essere riformato.
«Per prevenire i suicidi in carcere bisogna togliere la volontà di ammazzarsi e non limitarsi a privare i detenuti degli oggetti con cui suicidarsi. La prevenzione dei suicidi ha a che fare con la qualità della vita interna, con la condizione di solitudine, con l’isolamento e con i legami affettivi all’esterno. Abbiamo messo a disposizione di senatori e deputati una proposta che contiene norme dirette a ridurre l’isolamento affettivo, sociale e sensoriale dei detenuti. Il carcere deve riprodurre la vita normale. Nella vita normale si incontrano persone, si hanno rapporti affettivi ed intimi, si telefona, si parla, non si sta mai soli per troppo tempo», spiega il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella.
La proposta di Antigone al Parlamento: una detenzione vicina alla ‘vita normale’
La proposta di Antigone si articola in tre punti centrali: maggiore accesso alle telefonate, maggiore possibilità di passare momenti con i propri famigliari, inclusa l’opportunità di avere rapporti sessuali con le proprie compagne o con i propri compagni, e una notevole diminuzione dell’utilizzo dell’isolamento. La limitazione dell’isolamento è indispensabile perché è proprio nelle celle di isolamento che avviene il maggior numero di suicidi e la copertura di abusi e violenze. La proposta è stata inviata a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato.
L’obiettivo della proposta è sicuramente quello di avvicinare, per quanto possibile, la vita detentiva alla ‘vita normale’, tentando di garantire quel residuo di libertà decisionale imprescindibile per la persona. Mantenere più vivi i rapporti con gli affetti esterni al carcere ha un’importanza duplice: da un lato diminuisce drasticamente il senso di solitudine e confinamento provato dai detenuti, scongiurando gesti estremi come il suicidio, dall’altro lato conservare un ponte di collegamento con la realtà esterna fa si che i detenuti non si identifichino in tutto e per tutto con la realtà criminale in cui sono inseriti, contribuendo così ad abbattere la soglia della recidiva.
Sovraffollamento: aumenta la popolazione carceraria ma non la prevenzione al crimine
118,6% è il tasso di sovraffollamento attuale nel sistema penitenziario italiano. A fine novembre 2018 i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. La capienza complessiva regolare del sistema penitenziario italiano è di circa 50.500 posti, dunque attualmente circa 10.000 persone occupano posti irregolari.
Come sottolinea Patrizio Gonnella: «L’indirizzo dell’attuale governo sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo. Quello che si potrebbe fare subito è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente».
Ciò significa che anziché punire attraverso condanne detentive, sarebbe opportuno investire sulla prevenzione al crimine, specialmente riguardo ai reati in materia di droga. Le stesse misure alternative sono da considerarsi insieme punitive e preventive, sicuramente ampiamente più risocializzative rispetto al carcere.
Non tutte le strutture penitenziarie soffrono lo stesso livello di sovraffollamento: al momento la regione più affollata è la Puglia, che registra un tasso di sovraffollamento pari al 161%, poi la Lombardia con il 137%. Nei singoli istituti di Taranto, Brescia e Como è stata superata la soglia del 200%.
Nel corso dei sopralluoghi effettuati da Antigone durante il 2018, su 86 istituti visitati almeno nel 20% dei casi sono presenti celle di dimensioni inferiori ai 3mq. Il 36% delle celle invece è sprovvista di acqua calda e il 56% delle docce. Inoltre circa il 29% degli istituti non ha a disposizione un’area verde in cui poter incontrare i famigliari, luogo fondamentale per poter incontrare i figli minori così da evitare loro i luoghi angusti delle sale colloqui interne.
Continua a mancare anche il personale: in media è presente un educatore ogni 80 detenuti e un agente di polizia ogni 1,8 detenuti.
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