Fra business e creatività: l’America di Andy Warhol
La celebrazione del consumismo e del sogno americano, nell’opera di un artista che ha saputo rendere originale la quotidianità. 170 fra dipinti, Polaroid, serigrafie, istallazioni, A Palazzo Ducale di Genova, fino al 26 febbraio 2017. www.warholgenova.it
GENOVA – L’arte come la conosciamo oggi, ovvero come fenomeno di mercato spinto all’estremo, come ambiente patinato dove la teatralità sopravanza e soverchia il silenzio e il pensiero, è nata circa mezzo secolo fa, con l’intuizione di un giovane di umili origini polacche pieno d’idee e ambizione: Andrew Warhola, poi diventato Andy Warhol (1929-1987). Istrionico e poliedrico artista, è probabilmente il più autorevole bardo della modernità americana, acuto osservatore e narratore di un quarto di secolo di storia artistica e sociale degli Stati Uniti.
Il glamour, la moda, lo star system, la pubblicità, il denaro, la politica e la cronaca nera: niente sfugge all’occhio vigile e curioso di Warhol, che concepisce la realtà come un vorticoso teatro dove il sogno comune è quella della celebrità: e tutti ne dovrebbero ottenere almeno quindici minuti. Per queste implicazioni, la sua ricerca artistica è votata più alla sociologia che all’estetica. All’origine di un lavoro sciolto da ogni vincolo intellettuale, si cela un artista impegnato per se stesso, a vivre sa vie, che è poi, riecheggiando Oscar Wilde, l’omaggio più alto che si possa fare all’arte.
La sua produzione artistica può essere letta come un romanzo, e Warhol, così attento al personaggio, del romanzesco ha certamente l’allure, apparentabile a quella di un Gatsby meno romantico e più affarista, ma non per questo meno intenso, dalla vita analogamente avventurosa segnata da spiacevoli disavventure con l’altro sesso. Per oltre venti anni, la sua Factory a New York è stata il quartier generale del sogno americano contemporaneo, la meta preferita di chi, giovane artista o sfaccendato che fosse, pensava di avere qualcosa di nuovo da dire, o semplicemente voleva farsi notare. Fra i tanti che l’hanno frequentata, la sfortunata Edie Sedgewick e la più sbrigativa Valerie Solanas, oltre a Jane Holzer e i Velvet Underground.
In mezzo alla sua “corte,” Warhol è stato un moderno cantore della società dei consumi, dell’effimero, della luce che brilla solo per pochi istanti, nella quale tutti sognano di essere Marilyn Monroe o Mick Jagger (straordinari i loro ritratti in esposizione), di abitare nel Village e bere champagne allo Studio 54. Dalla splendida, patinata mostra genovese, emerge il fascino ambiguo e pericoloso di una società che celebra(va) se stessa, persino i propri lutti, come la drammatica scomparsa di Kennedy nel ’63. Tutto fa spettacolo, fino a quando non si spengono le luci. Il problema è capire come e perché si spengono. “Non ho mai capito perché, quando si muore, non si svanisce e basta”. Un epitaffio/sberleffo, la cui vena crepuscolare tradisce l’origine est-europea dell’artista, e che riassume in modo paradossale la sua visione dell’arte e della società; alla stregua di un qualsiasi oggetto che la società dei consumi ci permette di acquistare, e che gettiamo via quando usurato, anche la vita dovrebbe ridursi a semplice polvere, come fosse un qualsiasi bene di consumo. Disgraziatamente acquistabile una volta soltanto. Osservazione amara e appunto paradossale, ma che chiarisce abbastanza bene perché la società contemporanea è esattamente così. Ossessionata dalla giovinezza, anche, che porta con sé quella bellezza ingrediente indispensabile per il successo e la notorietà
Con Warhol l’America si scopre giovane e bella (o almeno questa è la sensazione che la Pop Art irradia nel Paese), ma soprattutto spensierata, parte di un grande spettacolo avvolto da mille luci, buona musica, e una miriade di beni di consumo più o meno superflui. Tratto caratteristico della produzione di Warhol, è la serialità delle opere, ognuna delle quali diventa essa stessa un bene di consumo, un prodotto a marchio. Un esempio su tutti, il Cenacolo di Leonardo patinato in viola: l’opera d’arte perde i suoi connotati concettuali, ma diventa un qualcosa di facilmente accessibile e riproducibile, e il nome di Leonardo da Vinci è relegato a semplice “marchio commerciale”. Specularmente, la zuppa Campbell e il detersivo Brillo perdono il loro carattere commerciale, e divengono opere d’arte.
L’ampio utilizzo delle Polaroid da parte dell’artista si spiega con la facilità tecnologica che permetteva di fissare l’attimo, documentare ampiamente il proprio vissuto quotidiano e fare della propria vita un’opera d’arte, pur nella banalità del quotidiano, nell’abitudinarietà di certi gesti o azioni. L’invasione d’immagini che subiamo oggi, dalla pubblicità ai social network, segue la medesima logica, che il sistema-Warhol, già negli anni Sessanta, intuì e assecondò, riuscendo a farne un dato acquisito.
Liza Minnelli, il padrino John Gotti, la sedia elettrica, i dollari, il mondo della musica; sfaccettature di un’America conformista e puritana, ma anche trasgressiva e ribelle. Nel segno, appunto, della giovinezza, della quale Warhol subiva il fascino, così come del denaro. I suoi ritratti non hanno come scopo la rappresentazione psicologica del soggetto; mutuati da semplici fotografie appositamente ingrandite e avvolte in falsi colori: a prescindere da chi sia la persona ritratta, Warhol ne esalta il successo e la fama (a volte discutibili come nel caso di Mao Tse Tung): i colori accesi e irreali prendono il posto dei fondi oro bizantini, avvolgono la celebrità in questione con un’aura ieratica, la elevano nel moderno olimpo del successo e del denaro.
L’attività di Warhol non si esaurisce nell’arte, anzi l’arte è soltanto una sua piccola parte: si tratta invece di una grande operazione sociologica e commerciale, d’imposizione di nuovi valori libertini e libertari in tono con la società del secondo dopoguerra, incentrata non soltanto sull’industrializzazione, e sul consumismo, ma soprattutto su una nuova idea di giovinezza che si cerca in qualsiasi maniera di prolungare il più possibile: negli anni Sessanta l’America si scoprì giovane (anche grazie a Kennedy e alle trounées dei Beatles e dei Rolling Stones), e un po’ ambiguamente la giovinezza fu propagandata (anche da Warhol), come simbolo di successo.
Per questo nacque la Factory, che accoglieva artisti, creativi e avventurieri. Ovviamente, non tutti potevano diventare ricchi e famosi, però l’illusione di esserlo rendeva accettabili i propri limiti: risiede qui un’altra delle attrattive (per l’epoca) dell’arte di Warhol: quel suo vendere illusioni, il fare della quotidianità un teatro dove ognuno, almeno per quindici minuti, può essere famoso. A Warhol va il merito di aver intuito i cambiamenti interni alla società, e di averli veicolati nell’arte amplificando la portata del mondo dell’effimero. A lui va però anche il forse involontario demerito di aver aperta la strada a migliaia di suoi imitatori, inebriati dal mito del successo e che hanno alterato il mondo dell’arte banalizzandolo nelle dinamiche di mercato e sancendo il predominio della cornice sul contenuto. E l’allestimento della mostra asseconda questo sentire artistico, poiché fra le sale di Palazzo Ducale sembra di trovarsi in un immenso “supermarket dell’arte” rutilante di colori, sorrisi, ammiccamenti, “sogni ad aria condizionata” (per citare Henry Miller), e quasi sembra di sentire il ritmo pulsante di un pezzo dance in voga allo Studio 54.
Anche il mondo “ribelle” del rock ha attratto Andy Warhol, e a lui si deve in buona parte la nascita dei Velvet Underground, che frequentavano la Factory dove incrociarono la splendida Nico. Il loro album d’esordio del 1967, porta la firma in copertina di Warhol, con la celebre banana che si vociferava (ad arte) fosse intrisa di LSD; era anche quello un modo per attirare l’attenzione ed essere sotto i riflettori, anche se la qualità artistica dell’album non avrebbe avuto bisogno di ulteriori spinte. E ancora, nel 1971, Warhol firma anche la politicamente scorretta copertina di Sticky Fingers dei Rolling Stones, ormai abbonati agli scandali e alle censure. Due album che restano per tanti motivi pietre miliari della storia della musica.
E Warhol resta a suo modo una pietra miliare della storia dell’arte, sperimentatore di un linguaggio comunicativo che all’epoca fu una novità assoluta per il modo in cui si rivolgeva all’individuo medio, che riuscì a elevare, o almeno a illudere di essere elevato, al rango di protagonista. Buona parte degli usi e costumi contemporanei, a cominciare dalla “cultura” televisiva della celebrità usa&getta affondano le radici nel sistema lanciato da Warhol, e un certo scadimento dell’arte a mero spettacolo, in parte è dovuto anche alla sua involontaria influenza.
Niccolò Lucarelli