Eadweard Muybridge, e l’inafferrabile dell’immagine
Precursore del cinema, il fotografo americano compì studi sul movimento fondamentali per lo sviluppo dell’arte moderna. Fino al 1 ottobre 2016, presso la Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Corso Magenta 59.
MILANO – In quella metà d’Ottocento, da pochi anni conquistata dall’invenzione della ferrovia, iniziò a serpeggiare nella mente dell’uomo l’idea della velocità, quel movimento forsennato che sembrava, metaforicamente ma non solo, prendere per mano il progresso tecnico e civile e lanciarlo verso nuove conquiste. La conoscenza della realtà, con l’accorciarsi delle distanze e con i progressi scientifici raggiunti, appariva sempre più a portata di mano, e anche lo sguardo dell’arte seguì con attenzione questi sviluppi. Nello specifico, la fotografia concorse non poco a incuriosire gli artisti, che vi ravvisarono la possibile soluzione all’eterna problematica della rappresentazione fedele della realtà; su quelle prime lastre, restavano anche quei dettagli che sulla tela non c’era stato sinora modo di riprodurre.
Eadweard Muybridge, curiosa figura dal passato avventuroso e scapigliato, non esattamente in linea con quanto ci si attenderebbe nella compassata Inghilterra vittoriana: narcisista e ambizioso, sente ben presto il richiamo del Nuovo Mondo, dove visse per un paio d’anni cambiando vari impieghi, finché la scoperta delle fotografia non sembrò rappresentare la conciliazione fra un mestiere e il suo modo di essere.
A questa poco nota ma interessante figura, è dedicata Eadweard Muybridge (1830-1904). Tra scienza e arte, la prima retrospettiva in Italia dedicata al fotografo inglese naturalizzato americano che, attraverso le sue sperimentazioni tecniche, ispirò buona parte della pittura europea del tardo Ottocento (ma anche oltre), e precorse l’invenzione del cinema. Da questa premessa, si coglie l’importanza della retrospettiva curata da Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio, che documenta la connessione che, nel secolo del Positivismo, si ebbe fra l’arte e la tecnologia, quando si guardava a quest’ultima come alla soluzione di tutte, o quasi, le problematiche dell’umanità. Era quindi logico che le sue applicazioni potessero risultare utili anche nella ricerca artistica,
Muybridge giunse in America nel 1852, dalla natia Kingston-on-Thames, e dopo aver svolto vari mestieri, fra cui quello di bibliotecario, si dedicherà completamente alla fotografia, che in quegli anni sta acquistando una sempre maggiore notorietà. Esordisce in questo campo fra il 1868 e il 1869, quando realizzò un reportage d’esplorazione nella Valle dello Yosemite, mentre fra il 1870 e il 1872 sarà in Alaska, e poi ancora a in Messico e a Panama. La mostra si apre con questi scatti suggestivi, che immortalano la vastità della natura, si tratti del mare, delle foreste o delle montagne, che in America hanno un’imponenza sconosciuta in Europa. Una struggente poesia, mista a nostalgia del passato, la si coglie negli scatti delle antiche chiese panamensi, costruite dagli spagnoli in epoca coloniale; ma il feeling di Muybridge con la fotografia non si ferma al reportage. L’ex governatore di Panama, Leland Stanford, con il quale aveva stretta amicizia negli anni precedenti, lo spinse a verificare l’ipotesi se, nel galoppo, tutte e quattro le zampe del cavallo risultassero contemporaneamente alzate rispetto al suolo, come le aveva dipinte, per esempio, l’artista francese Théodore Géricault nella tela Il Derby a Epson (1821). Vale la pena menzionare come Stanford avesse influito nel prosciogliere Muybridge dall’accusa di omicidio dell’amante della moglie Flora, a Panama nel 1874. Superato questo momento delicato, e coinvolto nel progetto di Stanford, Muybridge ideò uno dei primi sistemi per catturare l’istante del movimento, impiegando ventiquattro fotocamere collegate ad altrettanti fili lungo il percorso: ne risultò una sequenza di immagini descrivendo l’effettivo sollevamento da terra dell’intero corpo del cavallo, e l’esatta estensione delle zampe, del tutto diversa da quella immaginata dai pittori che sinora si erano cimentati con quel tema. Muybridge cattura quindi quella “deformazione” della materia, che illusoriamente sembra avere luogo quando un corpo è in moto a forte velocità, o è comunque impegnato in movimenti particolarmente dinamici.
Sul momento, i suoi esperimenti sull’immagine catturarono l’attenzione degli Impressionisti, che nei primi anni Sessanta dell’Ottocento dimostrano una particolare curiosità nei confronti della fotografia, grazie ai ritratti di Nadar (al secolo Gaspard-Félix Tournachon, 1820-1910); ma se nei suoi ritratti, a colpire i pittori erano i giochi di luce e l’uso del chiaroscuro, una volta conosciuto anche in Europa, Muybridge catturò l’attenzione per i suoi esperimenti legati al dinamismo dei corpi, alla loro deformazione fermata sulla pellicola, e in genere a quegli aspetti della realtà che sin ad ora erano sfuggiti anche al più abile dei pittori. Si trattava quindi di un’autentica rivoluzione per le arti figurative, quale si era soltanto sfiorata nel Settecento, con gli esperimenti dei vedutisti veneziani condotti con la camera ottica. Sul loro esempio, gli Impressionisti francesi utilizzarono la nuova tecnica della fotografia per ampliare il respiro della pittura, arrivando a dipingere direttamente sull’immagine fermata sulla pellicola, in modo da riprodurre il maggior numero possibile di dettagli del reale, o comunque, anche sulla tela, riproducendo quanto visto sulla fotografia, in particolare il dinamismo dei movimenti.
I suoi studi non si limitarono al solo corpo animale (fotografò cani, pappagalli, scimmie, elefanti, cervi bufali e leoni); nel suo atelier di Palo Alto, su cui aleggiava la malinconica aura di un circo crepuscolare, Muybridge sottoponeva uomini e donne, volontari si capisce, a ogni genere di esercizi fisici: salti, corse, torsioni, il lancio del disco, persino la lotta greco-romana. Il suo è un approccio di studio verso il corpo, di attenta osservazione, che spesso produce risultati simili a quelli della statuaria classica; la sequenza Donna che lancia un bouquet di fiori (1887), ritrae una giovane modella come fosse una novella Venere, o una Nike di Samotracia. I suoi studi grafici, circa 20.000 collotipie, furono pubblicati negli anni Ottanta dell’Ottocento in una serie di album conosciuti anche a Parigi, dove Muybridge tenne diverse conferenze negli anni Novanta, per presentare la sua invenzione che anticipò il cinema, ovvero quello Zoopraxiscopio, simile allo Zoetropio, che consentiva di proiettare le immagini in sequenza, rendendole visibili nel loro dinamismo. Furono i suoi studi ad aprire la strada ai Lumière, e al primo cinema, nel 1895.
Il contributo del fotografo americano non si ferma qui: i suoi scatti sono stati utili per la medicina, per la biomeccanica, per le successive tecnologie legate ala fotografia (ad esempio il flash, ispirato dal suo uso della luce elettrica in fase di scatto). Muybridge è anche pioniere inconsapevole dell’avanguardia futurista; i dinamismi di Balla, in un certo senso, gli sono debitori, così come gli studi di Bacon. La mostra, che coniuga arte e tecnica, affianca, agli scatti in cronofotografia, la ricostruzione del set che Muybridge usava per gli scatti in piano sequenza, che hanno avuto un’importanza fondamentale per lo stile di molti registi cinematografici americani, uno su tutto John Houston. A impreziosire la mostra, L’assassino nudo (1984) e Piccolo film decomposto (1986), docu-film originali realizzati da Paolo Gioli con la tecnica della cronofotografia di Muybridge.
Si tratta quindi di una mostra dal taglio fra l’artistico e lo scientifico, che documenta le radici della moderna fotografia, e lascia intuire quella che è stata la sua influenza nel mondo dell’arte.