L’italiano è anche delle italiane?
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 1999 ha istituito una ricorrenza per la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, scegliendo come giorno per onorarla il 25 novembre. Varie le iniziative per celebrare questa data simbolo, come la manifestazione tenutasi a Roma nella giornata del 25 novembre.
Ora vorrei però focalizzare lo sguardo su una questione in particolare relativa al problema della discriminazione, o inclusione, delle donne nella nostra società: la lingua. La lingua è, per definizione: sistema di suoni articolati distintivi e significanti, di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni, e di forme grammaticali, accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e sentimenti (Treccani). Dalla definizione leggiamo che è un “sistema accettato e usato da una comunità”, per cui si dà per scontato che questo mezzo comunicativo sia adatto a tutti i membri che rientrano nella comunità. Per provare a capire meglio se e quanto le donne siano escluse dalla nostra società analizziamo uno degli aspetti fondamentali della vita di qualsiasi individuo: la lingua, in particolar modo dunque si parlerà di “lingua e sessismo”. Secondo l’ipotesi “Sapir-Whorf” la lingua condiziona direttamente il nostro modo di pensare e dunque di concepire il mondo, non il contrario come si potrebbe pensare. Va inoltre considerato fino a dove la lingua è capace di esprimere le nostre necessità comunicative: un uomo, ad esempio, sente che la lingua riesce a manifestare sia la propria condizione di essere umano sia il proprio genere sessuale, mentre non possiamo dire lo stesso per le donne. Se è vero che la lingua rappresenta gli atteggiamenti dominanti, essa rifletterà inevitabilmente gli equilibri della società. La prima risposta possibile sarebbe che il problema non sussiste più nel momento in cui una donna può raggiungere un determinato posto di lavoro, ma è altresì vero che un bambino di cinque anni, ad esempio, sente più realizzabile il lavoro di ministro rispetto ad una sua coetanea.
La mancanza di termini appropriati per indicare lavori svolti dalle donne è un elemento culturale che, seppur periferico, può essere da ostacolo allo sviluppo di maggiore eguaglianza per le donne. Sarebbe sicuramente più giusto utilizzare il corrispettivo femminile di determinati mestieri quando questo è possibile, come nel caso di avvocato, dottore (casi in cui per la forma non marcata e generica si usa il nome al maschile pure per le donne), anche perché un uomo molto probabilmente non accetterebbe di sentir definire il proprio lavoro con forme non marcate e generiche al femminile, come nel caso ad esempio di levatrice, modista, di cui non si trova il corrispettivo maschile nei vocabolari. Nell’italiano, a differenza dell’inglese, tutte le parole sono marcate per il genere, per cui bisognerebbe rifondare da capo la lingua e renderla ugualmente disponibile per i due sessi, ma è evidente l’impossibilità di tale ipotesi. Ciò che è invece realizzabile è adoperarsi per rendere questo strumento comunicativo più uguale per entrambi i generi, ovvero utilizzarlo al fine di diminuire ed eliminare disparità tra questi due nella società. Una testimonianza importante per quel che riguarda le possibili modifiche degli usi linguistici ci è stata offerta dalle nuove sindache di Roma e Torino, che hanno riaperto la questione linguistica che riguarda il lavoro del primo cittadino, o meglio in questa situazione prima cittadina. In questo caso, alcuni si sono dimostrati refrattari alla parola sindaca, giustificandosi con motivazioni che riguardavano la correttezza linguistica, ma, ancora Treccani, spiega: “Non siamo di fronte a una questione di correttezza grammaticale, ma di adeguatezza nel trattare i nomi di mestiere al femminile”, dimostrando quindi le possibilità messe a disposizione dalla nostra lingua che possiamo e dobbiamo cogliere per aiutare il progresso dei diritti femminili verso l’uguaglianza dei due sessi.
Adriano Soldi