Le vasche “misteriose” dell’Ospedale di Santa Maria Nuova
Dopo anni di cattivo giornalismo televisivo, il rigoroso studio storico-scientifico “Le vasche di Leonardo tra realtà e ipotesi”, fa luce sulla funzione delle tre vasche lapidee conservate all’interno dell’antico ospedale fiorentino. Polistampa, pp. 48, Euro 12.
FIRENZE – La personalità di Leonardo da Vinci esercita ancora, giustamente, un indiscutibile fascino, tanto vasto è stato il campo della sua azione intellettuale, e tanto numerosi i suoi esperimenti, spesso circondati da un alone di mistero. Tuttavia, in tempi in cui la cultura viene spesso degradata a fenomeno televisivo, nemmeno Leonardo è sfuggito all’irretimento nelle maglie dello storicismo di quart’ordine. Nel 2012, lo scrittore a metà fra giallo e fantastoria, Ken Follett, realizzò un documentario concepito come una serie televisiva, dal titolo Ken Follett’s Journey into the Dark Ages: un imbarazzante spettacolarizzazione del Trecento e del Quattrocento, raccontati come fossero una favola dark, caratterizzati solo da violenza, pestilenze, sette segrete e la scienza ridotta a una serie di esperimenti macabri. Uno di questi, vedrebbe protagonista Leonardo da Vinci, che s’immaginava avesse dissezionati i cadaveri per i suoi studi anatomici nelle grandi vasche d’arenaria presenti negli ambienti adiacenti la cripta della chiesa dell’ospedale Santa Maria Nuova a Firenze. Un’ipotesi suggestiva, ma affatto veritiera, sulla quale è intervenuta con autorevolezza la storica Esther Diana, curando il volume Le “vasche di Leonardo” tra realtà e ipotesi, che inaugura la nuova collana dei Quaderni di Medicina & Storia. Si tratta del primo studio espressamente dedicato ai manufatti lapidei la cui particolarità ha sin qui lasciato campo libero alle ipotesi più varie. Confutando il “metodo” di Follett, Esther Diana e i colleghi da lei coordinati (Giulia Dionisio, Marialelena Fedi, Lucia Caforio, Marco Giamello, Sonia Mugnaini, Salvatore Siano), conducono un accurato lavoro di ricerca storica e di analisi scientifica dei documenti (cioè delle “vasche” stesse), lasciando da parte spettacolarizzazione e suggestioni leggendarie. Perché la storia è una disciplina seria, non un fenomeno da baraccone, e la divulgazione della cultura dovrebbe sempre rispondere a precisi criteri deontologici, primo fra tutti una competente conoscenza dell’argomento di cui si parla. Conoscenza ottenibile solo con un lungo studio dei documenti, appunto.
In un vasto ambiente dalle suggestive volte a crociera, adiacente alla chiesetta dedicata a Sant’Egidio, si trovano da secoli tre ampie vasche in arenaria, ognuna scolpita in un blocco unico; gli archivi dell’ospedale (fondato nel 1288 da Folco Portinari), tacciono in merito alla data di acquisizione e ala funzione svolta dalle vasche. Da questo silenzio, sono nate nei secoli le più svariate leggende, ora del tutto confutate.
Il volume è articolato in quattro brevi capitoli – dal doppio testo italiano/inglese -, che con l’asciuttezza che si conviene a un testo di divulgazione scientifica, espongono in maniera chiara e coinvolgente il lavoro di ricerca svolto su questi antichi manufatti.
Le belle fotografie all’interno del volume guidano il lettore alla scoperta della vasta sala voltata che custodisce le vasche, e affiancano l’accurata descrizione: in arenaria scolpita e decorata all’esterno con scanalature verticali, due di esse sono lunghe tre metri e larghe 130 centimetri circa, mentre la terza è lunga quattro metri e larga uno. In facciata, in basso, le vasche presentano dei fori di scolo centrali, mentre altri fori praticati sui bordi lasciano intuire un sistema di chiusura in legno o in ferro. Poiché gli accessi alla sala voltata sono di dimensioni contenute, si è ipotizzata un’edificazione successiva al posizionamento delle vasche. Considerando invece le grandi dimensioni delle vasche, il loro utilizzo per il disseziona mento dei cadaveri è stato subito escluso, anche se l’ipotesi è suggestiva. Ma non è con le suggestioni che si studia la storia.
Il lungo esame dell’archivio ospedaliero, di cui dà ragguaglio il secondo capitolo, non ha fornito testimonianze utili, per cui il gruppo di studiosi si è affidato alle fonti indirette, notando l’analogia delle vasche di Santa Maria Nuova con un’altra ancora oggi conservata in una bottega situata in un quartiere cittadino di antica vocazione manifatturiera. Vista la similitudine, l’indagine è proseguita studiando l’attività economica promossa dall’antico ospedale. Dai documenti risulta che già nel 1366 esisteva una bottega dedita alla lavorazione della lana, adiacente a Santa Maria Nuova e da questo acquistata. Successivi documenti riportano ulteriori acquisizioni, che testimoniano la gestione da parte dell’ospedale di botteghe legate alla manifattura. Ulteriori ricerche hanno permesso di appurare come le botteghe fossero ubicate tra via Sant’Egidio e via della Pergola; la presenza di un’area non edificata e utilizzata per il “purgo” ovvero la pulitura della lana, lascia pensare che le vasche in questione, in antico si trovassero appunto all’aperto, e fossero adibite a questa funzione. L’attività, riportano ancora i documenti, terminò fra il 1444 e il 1445.
Una seconda ipotesi propende per un utilizzo di conservazione alimentare delle vasche, poiché il “sito da purgo” venne convertito a granaio nel 1451, come riportato nel contratto di vendita di un’abitazione adiacente. Ipotesi però smentita dalle analisi di laboratorio, come vedremo più sotto. Infine, lo studio smentisce anche l’ipotesi di un utilizzo delle vasche per il disseziona mento dei cadaveri, spiegando come la conformazione stessa delle vasche non l’avrebbe permessa (foro di scolo troppo piccolo, eccessiva profondità che rendeva scomodo lavorarci); a questo si aggiunge il fatto che la sala voltata, nata in un certo senso attorno alle vasche, non è dotata di finestre, pertanto non ci sarebbero state le condizioni igieniche per evitare l’accumulo di batteri e gas mefitici. Manca anche lo scarico per i liquidi organici, che si sarebbero semplicemente raccolti sul pavimento. Accantonata quindi l’ipotesi fantasiosa dell’utilizzo delle vasche da parte di Leonardo da Vinci per dissezionarvi cadaveri, e acquisita invece quella su un utilizzo manifatturiero, la nascita della leggenda leopardiana può essere parzialmente spiegata con il fatto che la Compagnia dei Pittori detta di San Luca, ebbe a lungo la sua sede all’interno dell’ospedale di Santa Maria Nuova, e l’accostamento della vasche alla figura di Leonardo potrebbe essere nata dalla suggestione del personaggio, che fu sì pittore, ma anche scienziato, e condusse numerosi esperimenti. Ma non in queste vasche.
Il volume si chiude con il quarto capitolo, che documenta le dettagliate analisi scientifiche cui è stata sottoposta l’arenaria delle vasche, così come i residui dei materiali trovati all’interno, per datarle nel tempo: sono stati trovati residui di fibra organica di natura vegetale impregnate di ossido di ferro, molto usato nella tintura dei tessuti. Inoltre, sono stati trovati anche residui di filati di incerta natura. Per questo, l’ipotesi di un utilizzo manifatturiero appare la più credibile.
Il saggio ha il merito di non essere scritto in un linguaggio eccessivamente esegetico, e si presta pertanto a una lettura da parte di un vasto pubblico, che gli autori guidano nella lunga ricerca fra i documenti antichi, alla scoperta di un piccolo tassello della storia fiorentina.
Niccolò Lucarelli